Magni: «Burbero, ma un cuore grande così»

Il terzo uomo del ciclismo italiano: «Dal film Rai in onda oggi e domani esce un ritratto perfetto»

Pier Augusto Stagi

da Monza

La voce fuoricampo di Nicole Grimaudo, la musica di Ennio Morricone, titoli di coda: il film finisce e Fiorenzo Magni comincia a parlare. Ha appena terminato di vedere con noi, nel suo ufficio di Monza, l’anteprima della fiction Gino Bartali - L'intramontabile, stasera e domani su Raiuno, interpretata da Pierfrancesco Favino e diretta da Alberto Negrin. «È un film di una delicatezza inaudita, diciamo pure di una bellezza rara. Io non sono uno che ama tanto girarsi indietro a guardare quello che è stato fatto, ma quando ci si trova di fronte a certi lavori di recupero della memoria non si può che tirarsi giù il cappello. Questo è un omaggio bellissimo a Gino, ad un Paese che oggi non c’è più, al ciclismo tutto ma anche a Fausto, che ne esce altrettanto bene». Gino è Bartali, Fausto è Coppi; Fiorenzo Magni, il «terzo uomo» del ciclismo italiano, classe 1920, toscano doc di Vaiano di Prato, quei due li ha conosciuti bene. «Mica era facile emergere in quegli anni, con quei due Diavoli che andavano in bicicletta come dei treni - ci dice ancora sognante -. Io mi sono dovuto ingegnare per contrastarli, per vincere qualcosa anch’io. E oggi devo ringraziarli se sono diventato quello che poi sono diventato. Per me la vita è stata sempre una sfida possibile. Nulla mi spaventava. Dopo aver affrontato Bartali e Coppi, di che cosa avrei dovuto aver paura? Ero pronto a tutto».
Pronto a raccontare del suo rapporto con quei due fenomeni della natura, che fecero sognare un Paese intero, ancora lacerato e ferito dall’ultimo conflitto bellico. Erano gli anni del dopoguerra, quando la gente andava a lavorare e a ballare in bicicletta, e sognava di rimettersi in moto: in tutti i sensi. Bartali e Coppi al posto dei pedali avevano le ali; erano i due angeli che univano e dividevano l’Italia sportiva. Poi ce n’era un terzo. Robusto e precocemente stempiato, che faceva una fatica bestia, ma non si dava mai battuto, tanto è vero che di Giri d’Italia ne vinse tre, e tre furono anche i Giri delle Fiandre e le maglie tricolori, mentre sette le tappe al Tour e sei quelle al Giro. Ed è grazie a lui che nacquero le sponsorizzazioni nel mondo dello sport. Fu Magni a portare la Nivea: un’intuizione geniale. Mentre le case costruttrici di biciclette cominciano a patire la crisi con l’avvento e il boom delle automobili, lui capisce che è giunto il momento di cambiare rotta. Porta lo sponsor nel ciclismo e fa nascere gli abbinamenti; lui, in quegli anni, oltre a pensare a correre, pensa al futuro e apre una concessionaria d’auto e di moto. Oggi ha ottantasei anni, dirige tre concessionarie, e tutte le mattine si presenta in ufficio alle nove, «ma non sono più il primo, comincio a perdere qualche colpo», dice divertito.
Ma torniamo al film. «Non cambierei una virgola. Pierfrancesco Favino è bravissimo. Assomiglia poco a Gino, ma è riuscito a caratterizzarlo molto bene. Bravo lui e bravissimo il regista. Viene fuori benissimo il carattere di Ginettaccio: burbero, bizzoso, ma dal cuore grande così. Generoso e bravo come pochi. Di una fede altissima. Il suo rapporto con il cardinale di Firenze Dalla Costa era davvero speciale. E Gino fece quello che fece per salvare la vita a centinaia di ebrei in piena guerra. La storia della borraccia? Nel film è Gino a passarla a Fausto: ma è una bottiglia, non una borraccia. Ma probabilmente anche la mitica borraccia fu passata da Gino: lui non aveva mai freddo, non aveva mai caldo, non soffriva mai la sete...».
E l’attentato a Togliatti, nel ’48?
«Non so se davvero evitò la guerra civile con la sua seconda vittoria al Tour de France, ma credo che abbia dato una grossa mano affinché quel pericolo fosse scongiurato. Quella fu una vittoria provvidenziale».
Era davvero così religioso?
«I francesi l’avevano ribattezzato Gino il pio, per la sua fede, per la sua devozione. Anch’io credo in Dio, ma al cospetto di Gino tutti noi diventavamo piccini. Pensi una cosa: la Milano-Sanremo partiva alle otto di mattina, e lui alle sei e mezzo andava a messa. Io non ce la facevo. Troppa la tensione per la gara, troppe le cose da fare. Lui non c’era verso: andava a messa. Andava a dire le sue orazioni. Era davvero una persona speciale, come nel film è fedelmente raccontato».
E la moglie, Adriana?
«Nicole Grimaudo mi ha conquistato. Brava, bella, garbata, umile proprio come Adriana. Io e mia moglie Liliana la sentiamo tutte le settimane. Abbiamo ancora ottimi rapporti, con lei e i suoi tre figliuoli. È sempre stata una donna discreta, dolce, gentile, come è rappresentata nel film».
E Coppi?
«È lui. È proprio Fausto. Forse questo Simone Gandolfo assomiglia meno di Sergio Castellitto a Fausto, anche se ha un sorriso che è proprio bello. Il carattere mite, riservato, pacato e a tratti ironico è invece molto più simile a quello che aveva nella realtà Fausto. Nel film di qualche anno fa, quello diretto da Sironi, con Castellitto e la Muti, mi sembrava un po’ troppo irascibile: il Coppi che conobbi io non era così. Alberto Negrin, il regista di questa fiction, mi dà l’idea di aver studiato molto meglio i caratteri, ed è riuscito a trovare attori bravissimi. E poi questa è una storia molto più lieve, più dolce, meno pruriginosa. Il Grande Fausto ebbe il torto, per me, di puntare troppo sullo scandalo, sulla vicenda tra Fausto e la Dama Bianca, Giulia Occhini».
A proposito dello scandalo della Dama Bianca: Bartali fu davvero così comprensivo con Fausto?
«Sì. Gino è sempre stato molto rispettoso del privato».
Ma non c’è proprio nulla che non le sia piaciuto, o che le sarebbe piaciuto vedere?
«Forse ci avrei messo qualche immagine di repertorio sulle corse, qualche filmato di competizione vera. Avrei fatto vedere qualche compagno in più, magari anche il sottoscritto, ma questi sono solo dettagli: il film è molto ben fatto. Gino ne esce per quello che è stato. Un grandissimo campione, che non temeva nulla. Non per niente era l’uomo d’acciaio. Bello il suo rapporto con Fausto. Era proprio così. Rivale e leale. Schietto e generoso. Burbero e buono. Forse manca la frase “L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”, ma probabilmente era anche banale ridurre un campione di siffatta statura, con quella battuta conosciuta e prevedibile».
Ma a lei era più simpatico Fausto o Gino; a chi voleva più bene?
«Guardi, non so risponderle. Io ero coetaneo di Fausto, e probabilmente con lui avevo un pizzico di intesa in più. Ma anche con Gino ho sempre avuto un rapporto eccezionale. Ricordo il Giro del ’51. Penultima tappa, da Bolzano a St. Moritz: ero in maglia rosa. Dobbiamo affrontare l’ultima fatica, data dal Passo del Forno, posto a 2600 metri. Gino si mette davanti a me, e mi fa una bella andatura regolare.

Non fu un favore ricompensato, mi costò solo un caffè e forse nemmeno quello. Ma Gino era così: un gigante, di forza e generosità. Fausto anche, eravamo fratelli. Guardi, io non saprei proprio cosa dirle, sarebbe come dire: a chi vuoi più bene, alla mamma o al papà?».

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