Magritte al centro dell’impero delle luci

A Villa Olmo ottanta opere fra oli e disegni dell’artista belga

La variabilità dei cieli di Magritte (1898-1967) abitati dalle nuvole bianche, le sue notti chiare di stelle, e i suoi giorni nitidi. La variabilità del suo cammino d’artista istintivo e metodico, le fasi della sua espressione che lo porta a sperimentare la tecnica che gli appartiene nel momento in cui crea. Cubismo, collage, impressionismo, fauvismo, surrealismo. Senza ingabbiarsi, senza barricarsi dietro etichette.
La sintesi di questo percorso è a Como, a Villa Olmo, fino al 16 luglio. Ottanta opere (sessanta dipinti a olio, venti disegni e una piccola sezione dedicata alle fotografie di vita privata) raccolte nella mostra «L’impero delle luci», dal titolo di uno dei quadri esposti, del 1961. Nitore assoluto, blocco scuro di una casa con le finestre illuminate e un lampione acceso, contro il chiarore celeste colmo di nuvole.
Magritte realizzò questi lavori tra il 1922 e il 1967, quarantacinque anni di attività e opere che sono testimonianza della sua ricerca, della sua concezione forte e leonardiana della pittura come «cosa mentale», dell’immagine creatrice di pensiero quanto le parole. Era un amante del mistero, non del simbolo. Mistero del mare nella sua visione metafisica de La nascita dell’idolo (1926), dove si avverte la lezione di Giorgio De Chirico, mistero e incubo ne La parte del defunto (1948), scena in cui una donna (una moglie) offre cibo al cadavere di un uomo steso sul letto e coperto da un lenzuolo bianco, mentre il buio del soffitto è invaso da gocce di lacrime o di pioggia, grosse come lampadine trasparenti, sospese.
René leggeva i gialli di Georges Simenon, i thriller di Hammett e Carter e seguiva il cinema horror con le sue strane creature protagoniste: Frankenstein, Fantomas, Nosferatu. Lo intrigava la metamorfosi, la capacità di diventare altro, di sentirsi altro. Esempi sono la Découverte (1927), corpo nudo di donna con venature del legno, carne e albero insieme, o L’isola del tesoro (1942): qui un cespuglio di foglie verdi su una riva diventa stormo di tortore con la voglia di spiccare il volo, ma legate alla terra da radici. In questo quadro c’è già la luce del mattino che Magritte fissa sulla tela negli anni della guerra (la seconda). Una luce nuova che torna ne La magie noire, nudo di donna, corpo che appartiene per metà al cielo e al mare, dipinto con le stesse tinte e le onde, unica materia.
Ancora accecante mattino in La corda sensibile del 1960, nuvola come ovatta in un bicchiere di cristallo adagiato nel verde di una pianura. Alle spalle i monti. Il blu delle notti magrittiane è ne Il ritorno (1940), volo di colomba fatta di cielo diurno, portatrice del giorno, del riparo sul nido pieno di uova. Il blu è nell’Architettura al chiaro di luna (1936), nelle Grandi speranze. E torna anche trent’anni dopo con La page blanche, luna dipinta su foglie sospese, effetto magico, luce concreta, solida.
C’è tutto Magritte in questo cammino.

Che non è solo l’artefice del rigido, enigmatico borghese con bombetta, ma è l’artista ironico anche nella scelta dei titoli dei quadri (quasi sempre pensati dagli amici e approvati da lui), è il belga che contrasta il grigiore della sua terra, del fiume che si portò via sua madre, che fa sogni sereni e inquietanti, come la vita.

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