Un ragazzo malese di Sandakan, sull’isola del Borneo, è morto perché aveva cantato troppo. E male. Abdul Sani Doli aveva solo 23 anni. Gli è stato fatale l’aver esagerato con il karaoke, che in Malesia è una cosa seria, anzi una specie di religione. Alcuni avventori del bar dove si è esibito per l’ultima volta non hanno digerito alcune sue «intemperanze». Quella di non saper cantare e, ancora peggio, la sua insistenza nel non passare il microfono agli altri esuberanti compagni.
L’aggressione. E così, terminata la performance, la discussione nata sul palco si è spostata appena fuori dal locale. Urla, spintoni, poi l’aggressione a colpi di coltello da almeno due persone. Il ragazzo è morto quasi subito. Gli aggressori, fermati dagli altri avventori subito dopo l’accoltellamento, si sarebbero giustificati così davanti alla polizia malese. «Non la smetteva di cantare, gli abbiamo chiesto di passare il microfono e lui niente. E poi era pure stonato».
La moda. Il karaoke, oggi diffuso in tutto il mondo, è nato in Giappone nei primi anni ’80. In Italia è sbarcato ufficialmente all’inizio degli anni ’90 grazie alla fortunata trasmissione televisiva su Italia 1 condotta da un giovanissimo Fiorello.
Gli altri casi. Non è la prima volta che il karaoke scatena una rissa.
Nei mesi scorsi a Seattle, negli Usa, una donna ha aggredito il titolare del locale soltanto perché uno dei clienti avrebbe «rovinato» una canzone della band britannica Coldplay, la sua preferita. In Cina, Corea del Sud e Giappone le dispute finite a colpi di pugnale per una nota stonata sono praticamente all’ordine del giorno. Chi è stonato è avvisato.felice.manti@ilgiornale.it
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