La mamma è povera Il giudice: via la figlia

Sgomento, repulsione, disgusto, vergogna, sdegno. Scegliete voi la parola. Di certo stavolta qualche magistrato l’ha fatta grossa davvero. Qui infatti non c’è in gioco qualche miserabile centinaio di milioni di euro, e neppure una sentenza troppo mite, troppo (...)
(...) severa o addirittura sbagliata. Qui siamo di fronte a una violenza contro la natura, contro la società, contro l’umanità, contro la stessa sensibilità umana. Contro una madre e - soprattutto - contro una bambina di un mese e pochi giorni: sottratta alla madre perché troppo povera.
Peggio, alla ragazza di Trento, avevano suggerito di abortire - un figlio sanissimo - per il motivo che guadagna soltanto 500 euro al mese. Un consiglio del genere lo possono dare, se proprio vogliono e se la sentono, soltanto i famigliari e gli amici più stretti, giammai i medici o gli assistenti sociali o i funzionari di un ospedale. I quali hanno, casomai, il compito e il dovere opposto: tentare di convincere chi vuole abortire a non farlo. E quanto lo svolgono bene questo compito: chi vuole abortire viene sottoposto per settimane a pressioni, fino al lavaggio del cervello, perché la donna cambi idea. I consultori di questo tipo costano fior di soldi. Non sarebbe meglio investirne una parte per aiutare chi un figlio lo vuole a tutti i costi, nonostante tutto?
E dov’è la Chiesa, dove sono tutte le organizzazioni antiabortiste, che spendono milioni e milioni per le loro attività contro l’aborto, se poi non riescono a trovare una lavoro o un sostentamento a chi ne ha bisogno per avere e crescere un bambino?
Anche senza voler tenere conto dell’allegra, cinica, saggia frase di Churchill («Il migliore investimento che uno Stato possa fare è mettere del latte dentro un neonato»), il semplice buon senso ci dice che il primo dovere di uno Stato di fronte a una ragazza/madre così povera è aiutarla a mettere al mondo il suo bambino e a crescerlo. Già viviamo in una società, in un’amministrazione pubblica che fa pochissimo per chi ha figli. Credo sia un retaggio inconscio - azione/reazione - del Ventennio, quando si premiavano con denaro e benefici di ogni genere le famiglie che facevano più figli: se allora fare bambini era un merito nazionale, ora la nazione deve fregarsene. Come se il futuro stesso della nazione non dipendesse da chi fa figli.
Ma lasciamo perdere questa digressione da storico. Torno a essere un semplice essere pensante con cuore pulsante e dico che le famiglie povere vanno aiutate, figurarsi le ragazze madri poverissime. O forse si impedisce alle donne rom di partorire in una roulotte perché non dimostrano di avere un buon reddito? O si tolgono loro i figli prima che vengano mandati a rubare e a taccheggiare per le strade? Addirittura si permette che delle donne non solo partoriscano in carcere, ma che i loro piccoli crescano in prigione. Si permette di tutto. Vedo ogni giorno, per strada e nei parchi, mamme ben vestite che schiaffeggiano i figli, o ancora peggio li torturano con un’educazione terroristica, miserabile, demenziale. Si vede che possono, perché hanno un buon reddito.
Nel caso di Trento esplode la contraddizione di leggi iperprotettive volute da uno Stato tutore che ci protegge da tutto, specialmente da noi stessi: che non dobbiamo fumare, non dobbiamo correre, non dobbiamo prendere freddo. Uno Stato mamma apprensiva che poi non è in grado di permettere a una neonata e a sua madre di stare insieme e preferisce separarle, lacerando le loro vite per sempre, per paura che abbiano a mancare di qualche bene materiale. O forse - addirittura - perché non diventino un peso per la collettività.
Alla mamma viene impedito di vedere la bambina dal momento in cui è nata. Bacerei con il bacio di Giuda chi ha preso una simile decisione. Lo sa costui, o costei, cosa significa per un neonato venire privato delle carezze di una madre, che sono diverse dalle carezze di qualsiasi altro essere umano? E lo sa, quello stesso individuo, cosa possa significare per la madre non poterle dare, quelle carezze, quelle coccole? Per di più sapendo che non le può dare perché non guadagna abbastanza, ovvero che in pratica non può «comprare» sua figlia? Lei, la mamma, non può addirittura avere notizie della bambina, per un divieto imposto dal Servizio sociale. Servizio sociale. Le due lettere iniziali fanno pensare a tutt’altro.
Secondo l’avvocato della povera donna, i giudici del Tribunale dei Minori di Trento hanno deciso l’adottabilità della bambina perché hanno accolto «le inesatte informazioni del Servizio sociale che imputano alla mamma immaturità, povertà materiale ed emotiva e l’avvio della gravidanza come elemento di fragilità, colpa e incoscienza»; hanno frainteso così, continua l’avvocato, «la consulenza che aveva invece evidenziato come la mamma non ha estremi di irrecuperabilità tali da negarle di essere una mamma sufficientemente capace».

Non c’è da stupirsi, non sarebbe la prima volta che la magistratura «fraintende». Dunque si ricorrerà in appello. C’è una speranza. Almeno che il solito imprenditore generoso offra una lavoro degno alla poveretta. Sì, ma nel frattempo quanto dolore inutile e feroce.
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