Il mamozio fa paura anche a San Gennaro

Caro Granzotto, nel suo articolo «Lo scandalo della classe dei bocciati» ha scritto: «... viene dai mamozi egualitaristi». Purtroppo non conosco il significato della parola «mamozi» né l’ho trovata sul mio Zingarelli, per cui non ho potuto cogliere pienamente il senso del suo discorso. Perciò conto vivamente sulla sua pazienza e cortesia perché mi gratifichi di una sua pur brevissima risposta che possa colmare la mia lacuna linguistica.


Gliela colmo subito, caro Girali: mamozio è voce partenopea per pupazzo e, in senso lato, per conformista che indolentemente adegua il proprio pensiero agli slogan e alle parole d’ordine, senza carattere, spina dorsale, emasculato intellettualmente. In sintesi, e per dirla ancora in vernacolo, l’«omme ’e niente». Mamozio è un deonomastico, cioè un vocabolo derivante da nome proprio (come marcantonio, gradasso, sadico, eccetera): quello del console romano Lolliano Mavortio. Di costui si rinvenne, nel 1704 in quel di Pozzuoli, un busto marmoreo acefalo (ma attribuibile al console per via d’una iscrizione). Non gradendo il decollato, le autorità affidarono ad un artista locale l’incarico di ricostruire, a fantasia, la testa che però risultò comicamente sproporzionata al corpo: un capoccione grande così. I puteolani presero tuttavia a benvolere l’immaginario e deforme Mavortio il cui nome, nella parlata comune, finì storpiato, ed ecco che ci siamo, in Mamozio. Collocato nella piazza del mercato venne all’istante promosso da console a santo (ma a Pollena Trocchia, comune vesuviano, si trova una legittima Parrocchia di San Mamozio) ed eletto patrono dei «verdummari», i venditori di frutta e ortaggi. Per tenerselo buono, costoro non mancavano di rendergli omaggi in natura e a tal proposito si racconta di un contadino che intese donargli un intero cesto di fichi, lanciandoglieli uno ad uno. Quelli maturi si spiaccicarono alla statua, gli altri vi rimbalzarono contro. Il contadino fece allora questa considerazione, rimasta a proverbio: «Santu Mamozio mio, ’e bbone te magne e ’e toste me manne arrete», i buoni te li mangi, quelli duri me li tiri addosso.
Come personaggio in carne ed ossa la figura di Mamozio compare - interpretata ovviamente da Macario il quale, cinematograficamente parlando, aveva giusto la faccia del mamozio - solo nel film «Il monaco di Monza», a fianco di Totò. Ma in quanto locuzione attributiva vanta presenze nella letteratura e nel teatro, soprattutto in quello di Edoardo Scarpetta. E non solo lì. Come lei forse saprà, caro Girali, è consuetudine delle «parenti di San Gennaro» (le popolane che il giorno deputato alla liquefazione del sangue affollano già dall’alba la chiesa incitando, tra una sferruzzata e l’altra, il santo a procedere, a farlo «’o miracolo»), di passare ai modi bruschi se mai il santo, come talvolta accade, dovesse indugiare. Dapprima apostrofandolo «faccia gialluta» (per via del colore assunto dal bronzo della statua), quindi ricorrendo a vere e proprie male parole, seppur pronunciate con l’affetto che viene dalla familiarità. L’assalto verbale, però, è mitigato da premurose e al tempo stesso impertinenti litanie. Una di queste recita: «San Gennaro San Gennà ’sta città te cerca aiuto tu però te sì addurmuto (addormentato) e ’sta storia adda cagnà (deve cambiare).

Nun vulimmo a ’nu mamozio ca nun tene autorità, San Gennaro San Gennà vire (vieni, manifestati) e nun ce sta a scuccià». E va a finire che il più delle volte, per non prendersi ulteriormente del mamozio, San Gennà esegue.

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