In tempi d'agonia del mercato in generale e di quello della musica classica in particolare, non si sa più a quali santi in paradiso affidarsi. Così si lanciano slogan, tendenze, artisti esotici con un passato vibrante da raccontare. Magari giocando la carta dei direttori in fiore, e allora c'è chi prende il volo e chi, invece, finisce irrimediabilmente a gambe all'aria. È volato ben lontano Daniel Harding, leader della tendenza dei «baby direttori». Oggi ha trentacinque anni e un passato costruito a suon di primati anagrafici: a ventuno anni dirigeva i Berliner Philharmoniker e a trenta la fatidica «prima» della Scala. Con Milano scattava subito la scintilla, tanto che Harding è poi tornato regolarmente. Sarà alla Scala anche domani (ore 20) con la London Symphony e Christian Tetzlaff al violino solista, in uno «special event» a favore del Fai (Fondo ambiente italiano). In programma il Concerto in mi minore opera 64 per violino e orchestra di Felix Mendelssohn-Bartholdy e la sesta Sinfonia di Mahler.
Harding, da Oxford, è britannico fin dal primo sguardo: chioma bionda, carnagione chiara, lentiggini. Però nella sua vita c'è tanta Italia. Ci sono le lezioni e i lanci procurati da Claudio Abbado; c'è la Modena terra della Maserati (un modello del tridente sta nel suo garage). Lui è direttore stabile dell'Orchestra di Stoccolma e della Mahler Orchestra, ma rimane un innamorato della Filarmonica della Scala. «È camaleontica, capace d'esprimere tanti colori. Respira quotidianamente la polvere del palcoscenico, e questo si sente: ha uno spiccato senso del teatro», dice.
Poi risiede in una città a lei molto cara.
«Al punto che avevo pensato di prendermi una casa qui, ma i figli sono a Parigi. Troppo complicato. Magari in futuro».
Sempre appassionato della Milano notturna?
«Milano è una città viva; quando posso faccio una puntata in discoteca, c'è sempre una bella atmosfera. Non ci andrò in questi giorni: purtroppo manca il tempo».
Si ripropone l'occasione in dicembre, quando dirigerà alla Scala il balletto alla Serata Béjart. Altri progetti con la Scala?
«Certamente per il 2011 e 2012: stiamo definendo».
Si vede con Claudio Abbado?
«Non quanto vorrei. Ma vuol sempre essere aggiornato su ciò che faccio».
In un mondo globalizzato resistono ancora le identità delle orchestre?
«Sì. Le italiane, per esempio, suonano con straordinaria partecipazione emotiva».
Stessa domanda, ma riguardo alle squadre di calcio.
«Il Manchester United rimane il Manchester United... anche se non sono più un suo azionista. Come fare a non essere accaniti tifosi di questa squadra...».
Per quale band tifa?
«Per i Beatles e I Queen: I want to break free è la mia canzone del cuore, nella quale mi riconosco».
Un cuore che continua a battere in Inghilterra...
«In realtà sono molto critico con il mio Paese, sarà che vi manco da molto. Non capisco perché lì si insista a non voler imparare un'altra lingua».
È sempre stato fra i più giovani a far tutto.
«Alla gente piacciono questi dettagli, fanno molto effetto. Per me ha contato solo un fattore: iniziando presto, ho sperimentato subito certe cose, risparmiando tempo». Puro pragmatismo britannico.
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