"Mangiauomini", cambiano i tempi ma non il fascino

Dalla Récamier alla Bernhardt alla Deneuve. Ecco le intramontabili icone della seduzione

"Mangiauomini", cambiano i tempi ma non il fascino

Il diavolo si annida nei dettagli. L’Ottocento dei sentimenti si apre con il salotto verginale di Juliette Récamier e si chiude con quello funereo di Sarah Bernhardt. Nell’arco di un secolo, dal romanticismo degli affetti, lì dove, sospirerà Benjamin Constant, «anche gli angeli hanno le loro crudeltà», si passa al decadentismo delle passioni, dove i demoni possono anche essere capaci di dolcezze. L’amore, insomma, è divenuto un’opera al nero e il sesso ha più a che fare con la morte che con la vita. Il sorgere e l’affermarsi della femme fatale, la donna fatale, sta in questo scarto: all’inizio ci si danna per lei con l’illusione di salvarsi, alla fine con la consapevolezza di perdersi.

Tutto in Juliette Récamier era candido, dalla pelle alle perle al matrimonio in bianco che, sposando un borghese, aveva salvato lei aristocratica dalla ghigliottina della Rivoluzione. Un celebre ritratto di David la immortala su una méridienne degli ebanisti Jacob, avvolta in una tunica greca che lascia scoperti i piedi nudi, un busto in marmo ne celebra l’ovale perfetto del volto, il piccolo seno a coppa che negligentemente scivola dallo scialle. Aveva come unica passione la seduzione, ma a differenza di Paolina Borghese, sua amica e sua contemporanea, era un piacere più intellettuale che sessuale. L’unico uomo per cui Juliette perse la testa fu Chateaubriand, non a caso soprannominato «l’incantatore», lo scrittore più narciso e più grande della sua epoca. Votandosi al suo culto, celebrò se stessa.

Tutto in Sarah Bernhardt era scuro. La stanza da letto fasciata di satin nero, dormiva in una bara di ebano, una candela accesa e un cranio sul tappeto, non si perdeva un’esecuzione capitale, da bambina aveva pensato di farsi monaca. Nero era anche il suo senso dell’umorismo. «L’amore è un colpo di reni e un colpo di spugna» sintetizzava. Del figlio illegittimo diceva fosse «l’unica cosa naturale» fatta da lei. A una povera attrice che sperava di commuoverla parlandole del suo misero salario, replicò: «No, no, cara. Non voglio saperlo, è troppo triste». Ebbe moltissimi amanti, apparteneva a tutti e quindi a nessuno. Fu la più grande attrice del suo tempo.
Sul bianco e il nero di un secolo e di una tipologia femminile, Giuseppe Scaraffia costruisce il suo Femme fatale (Vallecchi, pagg. 175, euro 15), ventidue ritratti di «sirene» belle, eccentriche e spregiudicate che al mito del titolo rimandano, l’unico forse, fra quelli nati allora, «il bel tenebroso», «il ladro gentiluomo», «il dandy», «l’esteta», «il vampiro», che sia arrivato ai nostri tempi senza mutare di sostanza (nel Novecento ci ha pensato il cinema a modernizzarne il look, da Louise Brooks a Catherine Deneuve). Lo fa con una ricchezza di particolari stupefacente, di cui la bibliografia a fine volume è testimonianza, ma con una facilità e felicità di stile che gli permette di allineare davanti al lettore, in capitoli serrati, aneddoti e considerazioni, dati e interpretazioni. Consapevole, con Antoine Blondel, scrittore scapestrato e ahimè dimenticato, che «tutte le donne sono fatali. Si comincia con dovere loro la vita e finiscono per causare la nostra perdita», Scaraffia sa però che si tratta di un mito in cui l’aggettivo che lo definisce allude al destino ricevuto e/o donato, la fiamma che incenerisce chi vi si avvicina e però non si consuma, una recita che travalica sempre i ruoli che in teoria sarebbero stati posti a chi la metteva in scena, ovvero la viveva.
Se la marchesa de Castries, che un Balzac innamorato illuso e poi deluso ritrarrà nel romanzo La duchessa de Langeais, ritratto dell’allumeuse per eccellenza, appartiene ancora all’Ottocento romantico modello Récamier, già con Cristina di Belgiojoso, nata appena un decennio dopo, si intravede il Thanatos che sarà di casa dalla Bernhardt. Qui il salotto è infatti funereo, tanto che lo scrittore Theophile Gautier insinuò che l’avesse arredato un’agenzia di pompe funebri... Ma funereo è anche il contrasto fra il nero degli occhi e dei capelli, il pallore del viso. «Doveva essere bella da viva», era il commento, in società, di quelli sordi al suo fascino.

Si badi bene, la femme fatale non necessariamente è tale per la sua avvenenza. Anche se Cristina divideva gli uomini in tre categorie, «mi ama, mi ha amato, mi amerà», sapeva bene di essere qualcosa di diverso, di più e di meglio, di una semplice, banale, bella donna. Scrive Scaraffia che fu «una delle poche figure femminili risorgimentali di statura europa», vagabondò per il Medio Oriente e lasciò bellissimi libri di viaggio, anticipò le riflessioni sulla emancipazione femminile.
Al fondo, in quasi tutte le «donne fatali» raccontate dall’autore, c’è una solitudine non sempre voluta, ma comunque accettata. «Ho vissuto indipendente, invecchio indipendente, morirò indipendente» dice Judith Gautier, la figlia di Theophile, l’amante di Richard Wagner e di Victor Hugo, la splendida scrittrice di La collana dei giorni. Valentine de Saint-Point, la donna che si diede a Marinetti e diede al movimento da lui fondato il Manifesto della donna futurista e il Manifesto futurista della lussuria, l’inventrice della «metacoria», una danza astratta incubatrice della danza moderna, e del Tempio dello spirito, un centro internazionale per gli intellettuali, quella che recitava nuda ai suoi amanti i versi di Baudelaire «Sono bella come un sogno di pietra», si convertì all’islamismo, morì al Cairo, sotto il nome di Raouhya Nour el Dine, dimenticata da tutti.

Ipertrofiche nell’io, spesso e volentieri frigide tanto più collezionavano sessi maschili e femminili, intelligenti quasi sempre e spesso colte, le «donne fatali» furono naturalmente libere rispetto al loro tempo, ma la definizione suona ambigua se non la si spiega in un’ottica dove il rifiuto delle convenzioni, li talento e le amicizie, il clima intellettuale, contribuiscono alla formazione di caratteri d’eccezione in ambiti particolari e limitati. E non sempre, va da sé, la libertà consiste nel fare quello che ci pare, l’altra faccia della schiavitù dei propri desideri. Libere! (Cavallo di ferro, pagg. 236, euro 15) è anche il titolo di un saggio che Paula Izquierdo dedica a ventuno figure femminili, alcune delle quali (la Bernhardt, la contessa di Castiglione, Mata Hari, Alma Mahler) fanno anche parte dell’antologia scaraffiana. Ma qui, accomunando nel nome della sessualità Virginia Woolf e Colette, la Baker e la de Beauvoir l’autrice fa un minestrone di cui non si riescono a distinguere più gli ingredienti. Del resto, il titolo originale del libro, Sexoadictas o amantes, racconta un intento diverso, reso esplicito nell’introduzione, la dipendenza sessuale femminile, ma non mantenuto nel corso dell’opera.

Il risultato è un centone che mette insieme Caterina di Russia e Janis Joplin... Anche stilisticamente il volume è meno felice dell’altro prima raccontato, con qualche sciatteria cronologica e minor scrupolo documentario.

L’elemento in più di Libere! - ma questo ha a che fare con il gusto di chi scrive - è che dalla foto del risvolto di copertina la giovane Paula Izquierdo risulta più affascinante, non dirò «fatale», del bravo e simpatico Giuseppe Scaraffia...

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