Cultura e Spettacoli

La mania delle playlist che contagia libri e arte

Tutta colpa di Rob Fleming. È stato proprio lui, il protagonista del fortunato romanzo di Nick Hornby Alta fedeltà a inaugurare la moda delle playlist, diventate negli anni una vera e propria ossessione. Tutto si può classificare, downloadare, inserire in personalissime compilation: dalle canzoni ai film, dalle partite ai libri, dai ristoranti ai vini in un infinito elenco di gamme e possibilità.
Manca poco all’inizio ufficiale delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia ed è una corsa frenetica a rivisitare il nostro secolo e mezzo distinguendo i buoni dai cattivi, esaltando le imprese, ricordando con nostalgia ciò che ha segnato indelebilmente i migliori anni della nostra vita. Ogni giorno fioccano sul mio tavolo di presidente del Circolo dei Lettori di Torino proposte del tipo «I 150 libri italiani da salvare», oppure «I 15 autori più importanti del rispettivo decennio». Ferve il dibattito: meglio Cuore o Pinocchio, I Malavoglia o I Viceré, Ragazzi di vita o Marcovaldo? Consideriamo intoccabili Gadda o Pavese, Montale o Quasimodo, Tondelli o De Carlo?
Per non parlare degli artisti figurativi, scopertisi improvvisamente patrioti e nazionalisti. Gettonatissimo il progetto di ritrarre i grandi italiani, oppure fotografare i luoghi simbolo della nostra penisola. E mentre i cantanti a Sanremo si sono dilettati in stucchevoli cover delle peggiori melodie italiote, l’enogastronomia punta sulla riscoperta delle ricette tradizionali, espressione delle diverse regioni, in molti casi senza tempo.
Non per fare sempre il bastian contrario, ma quest’enfasi dell’autocelebrazione da tormentone necessario sta assumendo i contorni dell’ansia e dell’angoscia, poiché tutto è proiettato nel passato e man mano che ci avviciniamo al presente i contorni culturali del Bel Paese sfumano in una sorta di nebbiolina indifferenziata. Certo, la colpa è dei nostri nonni e genitori che avevano posizionato l’asticella molto in alto: pensiamo solo a tutto ciò che è accaduto tra gli anni Sessanta e Ottanta, davvero c’era l’imbarazzo della scelta e chiunque si decida di privilegiare l’escluso sarà sempre un illustre trombato, dopo aspro dibattito.
E oggi? Che cosa propone l’Italia unita allo specchio delle sue 150 primavere? E, soprattutto, quale futuro intravediamo per questa strana nazione così divisa, parcellizzata, parziale, dove di fatto non si è ancora formata una memoria condivisa da cui partire? Tra le numerose mostre ed eventi che ci accompagneranno per i prossimi mesi, soltanto quella annunciata all’Officina Grandi Riparazioni di Torino, Stazione Futuro curata da Riccardo Luna direttore di Wired si pone esplicitamente il problema del domani. Tutto il resto appare come un complesso e spettacolare amarcord dei tempi che furono, mai così lontani.


«Che cosa racconteremo di questi cazzo di anni Zero?», si chiedeva il giovane cantautore Vasco Brondi. Boh! E soprattutto, con questa aria da fine impero che respiriamo a fatica, avremo ancora altri cinquant’anni da raccontare, nel 2061?

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