Manovra, la prova del fuoco di Angelino: se non passa la sua linea, il Pdl può crollare

Il compito di Alfano è arduo, troppi nel partito tentano di tirarlo per la giacca A lui, da segretario, la sintesi: domani il vertice per trovare la quadra sul decreto. Il ministro Romani: "C'è un problema di rappresentativa". Dai governatori ai "quarantenni" ecco tutti quelli che pressano

Manovra, la prova del fuoco di Angelino:  
se non passa la sua linea, il Pdl può crollare

Roma - Quando ha incoronato Angelino Alfano suo successore, Berlusconi sapeva che nella corona si nascondeva qualche spina. Che adesso comincia a pungere sulla testa dell’ex ministro della Giustizia, osannato da tutti ma anche tirato per la giacchetta da molti. In tanti, forse troppi, vogliono dire la loro su partito, alleanze, strategie future, manovra. Ma alla fine a decidere deve essere lui, Angelino. Questo vuole il premier, consapevole che il Pdl o è Alfano o non è. Fino a quando nell’impero del Pdl governava Re Silvio, anche in provincia il verbo era quello del Cavaliere perché il suo carisma garantiva voti e successi. E la musica era una sola. Ora, che la successione è avviata, la musica del Pdl è un concerto a più voci. Forse troppe. Ognuno vorrebbe seguire il proprio sparito e suonare la melodia giusta.

I più rumorosi sono quelli che compongono il trio del «Li-Lo-La», iniziali delle Regioni nelle quali hanno il proprio serbatoio di voti. Sono il ligure Claudio Scajola, il lombardo Roberto Formigoni e il laziale Gianni Alemanno. Forse l’ex ministro dello Sviluppo è stato quello dal tono più acuto nel dire la sua e soffiare nella tromba del «dobbiamo cambiare». Le parole d’ordine di Scajola: più territorio, più struttura di partito, più regole, più dialogo con Casini, meno nomine calate dall’alto. Nei suoi refrain in molti hanno visto - a torto - una sorta di critica al delfino designato Alfano, come se il veterano forzista volesse insegnargli a nuotare. Ma anche il lombardo Formigoni non è stato da meno. Il governatore ha urlato più volte che la ricetta giusta per scongiurare il funerale del Pdl era immergerlo in un bagno di democrazia: azzeriamo i coordinatori e primarie, primarie, primarie. Anche per il candidato premier del 2013. Sogni di gloria per se stesso? Il diretto interessato lo esclude. Almeno per ora. L’altro big dall’ugola d’oro è Gianni Alemanno, pure lui a pigiare il tasto del cambiamento. Anzi, della rivoluzione interna. Il suo canto, rispetto agli altri due, ha venature antileghiste visto che Bossi non c’ha mai preso. «Basta con gli ultimatum del Carroccio, non dobbiamo piegare la testa: loro valgono 10 e noi il 40», è il fulcro del suo ragionamento.

Fosse soltanto il trio del «Li-Lo-La» a suonare la grancassa, sarebbe già un successo. In realtà nel Pdl le voci libere continuano a cantare che è una bellezza. Proprio ieri s’è alzata quella del ministro per lo Sviluppo economico, Paolo Romani: «Nel partito carismatico in cui milito non c’era il problema di scegliere il leader: il leader era Berlusconi ed in lui tutti, a partire da me, ci siamo riconosciuti e per seguirlo abbiamo lasciato il mondo del lavoro per impegnarci in politica. Ma oggi, dopo 17 anni, può darsi che si ponga un problema di rappresentatività». Frasi poi smentite dal diretto interessato: «Mai parlato di problema di leadership del partito, il mio discorso apriva alla necessità di nuovi meccanismi di rappresentanza popolare e formazione del consenso, rappresentati in primis dal web».

Di fatto, però, con il dopo Berlusconi all’orizzonte il partito sembra non avere una rotta ma due o tre. Una contesa per emergere e per pesare di più nella quale emergono pure i fiati dei cosiddetti «quaranta-o-giù-di-lì». Sono le leve fresche del partito, i giovani, molti dei quali ministri di peso, stretti, strettissimi attorno ad Alfano. Sono, per citarne alcuni, Michela Vittoria Brambilla, ministro del Turismo; Mariastella Gelmini, ministro dell’Istruzione; Franco Frattini, ministro degli Esteri; Stefania Prestigiacomo, Ambiente. Ma anche Raffaele Fitto (Affari regionali), Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera, Massimo Corsaro, vicepresidente dei deputati Pdl, Giorgia Meloni, ministro della Gioventù e Mara Carfagna (Pari opportunità).

Ma non è solo una questione di anagrafe, giovani contro anziani. Basti sentire l’ex ministro Antonio Martino, leader dei «frondisti» che vogliono cambiare la manovra tutta lacrime e sangue e tornare al sogno del «meno tasse, meno Stato»: «Il Pdl sta andando nella direzione opposta rispetto al partito liberale di massa. Rispetto ad Alfano io sono sicuramente di un’altra generazione diversa. Lui ha 40 anni, io ne ho oltre 25 più di lui. Ma l’idea di fare un grande partito di centrodestra che finisca con l’esprimere una politica che emerga dalle varie componenti è una idea aggiornata della Democrazia Cristiana. Non è quello che serve. Se per mettere insieme anime disparate si preparano pappette indigeribili, il Pdl non va da nessuna parte. E sono in tanti a pensarla come me». Non solo i canuti. E Alfano che fa? Si tramuta in un Letta di partito: media, smussa, concilia, cerca di fare la sintesi.

Tanto che domani radunerà i vertici del partito per cercare di sciogliere l’intricato nodo della manovra. Con la consapevolezza che chi gli ha dato lo scettro in mano vorrebbe che lo usasse con più forza e vigore. Perché, per il Cavaliere, il Pdl può volare solo con le ali di Angelino. Altrimenti potrebbe precipitare.

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