Manovra sottobanco

Tra le tante incongruenze di una finanziaria originariamente volta a «far piangere i ricchi» e che si sta rivelando come un confuso coacervo di norme e di provvedimenti che finiranno per far piangere indistintamente tutti, l'attenzione si sta ora concentrando sulle disposizioni che riguardano la ricerca e l'università. Tale attenzione è dovuta ad una serie di motivi che vale la pena di riassumere. Il primo è che la finanziaria prevede una serie di tagli alla spesa che sono in lampante contraddizione col suo voler essere uno strumento di risanamento e di rilancio della crescita economica. Il secondo è che tali provvedimenti sono stati vivacemente contestati dal mondo universitario (docenti e rettori) che non ha nascosto il suo essere, in larga misura, orientato a sinistra. Il terzo è che il ministro Mussi non è rimasto indifferente a tali «grida di dolore» ma, a dimostrazione di un'impotenza politica, ha, per ora soltanto, minacciato le dimissioni. Il quarto è che da quando la scienziata Rita Levi Montalcini ha dichiarato che in relazione a tali provvedimenti avrebbe potuto far mancare al governo il proprio voto al Senato, si è scatenato un balletto, invero poco serio, di promesse. Il governo ha promesso immediatamente altri fondi, ma il ministro Mussi ha dichiarato che non si trattava di fondi aggiuntivi.
Sembra di capire che per il governo Prodi il mondo della ricerca può essere trattato come un mendicante al quale viene elargito qualcosa a condizione di star zitto. Tuttavia, per quanto i problemi dell'università non possano essere risolti da nuovi e cospicui stanziamenti, e per quanto essa possa anche apparire come un secchio sforacchiato nel quale è inutile versare dell'acqua, è pure vero che una sua riforma non dovrebbe essere fatta tra le pieghe di una finanziaria.
E questo, soprattutto in considerazione del fatto che tra quelle pieghe c'è la creazione di un'agenzia di valutazione della ricerca e degli atenei. Chi ha a cuore l'università e sa che senza ricerca non si avrà innovazione e neanche crescita economica, si rende immediatamente conto della rilevanza di tale novità. Purtroppo, per quanto si tratti di un proposito in grado di trasformare l'università e di condizionare il futuro del Paese, su di esso, finora, non c'è stata una discussione pubblica paragonabile a quella che c'è stata sul sistema di finanziamento degli atenei e di incentivazioni economiche al personale.
La strategia del governo sembra così essere quella di minacciare tagli per poi barattarli con il silenzio sulla vera e rivoluzionaria innovazione: la creazione di un'agenzia di valutazione. Col che non si vuole affatto dire che essa sia inutile o dannosa, ma, al contrario, che si tratta di un provvedimento così importante ed utile che non può essere varato senza un'adeguata riflessione sui criteri ispiratori, sulle modalità di realizzazione e di applicazione e, soprattutto, sugli obiettivi.
Qualcosa, a dire il vero, esiste già. Si tratta del cosiddetto Civr, che ha sottoposto ad una valutazione atenei, dipartimenti e classi, e dei nuclei di valutazione creati da molte università e composti da personale interno o da personale esterno. Chi ha partecipato alle valutazioni, o si è volontariamente sottoposto ad esse, ha anche avuto modo di constatarne la serietà e, forse, concorderà che si tratta di strumento indispensabile per evitare di continuare a buttare acqua in un secchio sforacchiato.

Il fatto è che il passaggio da uno strumento sperimentale ad un criterio di valutazione generalizzato al quale si legano immancabilmente ricadute sul terreno delle risorse degli atenei e della loro futura configurazione, richiede, proprio per via del suo carattere rivoluzionario, una discussione sulla «filosofia» che lo ispira. È vero che da noi le discussioni tendono a non aver mai termine, ma questo non giustifica che lo si voglia far passare alla chetichella, nei tempi «contingentati» dell'approvazione della finanziaria.

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