Mao Tse-tung, dietro l’ideologia solo l’orrore

Due nuove biografie svelano il volto segreto del dittatore comunista

Capire la Cina non è più cosa solo di amanti dell’esotismo o di ribelli fuori di zucca. Tutti s’interrogano su che cosa stia divenendo l’ex impero celeste. E così piovono le biografie su Mao Tse-tung. È lui il fondatore della Cina moderna e per capirla si deve partire da qui. In poche settimane in Italia sono state tradotte due biografie: Mao, la storia sconosciuta di Jung Chang e Jon Halliday (Longanesi) e Mao, l’uomo, il rivoluzionario, il tiranno di Philip Short (Rizzoli). Del libro della Chang, guardia rossa pentita, irriducibile antimaoista, abbiamo già scritto. Short, invece, non è coinvolto con vicende cinesi: corrispondente della Bbc, autore di una biografia di Pol Pot, ha scritto un libro che rimedia alle forzature di una Chang che spinta dall’odio per Mao lo dipingeva come ozioso mammista, incapace di rapporti con il popolo, inetto in materia militare. Furbizia e crudeltà sarebbero state le sue uniche virtù: e un’infinita fortuna, oltre a l’essere condotto per mano dai sovietici (e a un certo punto - sostiene la Chang - persino da Chang Kai-shek) fino alla vittoria finale. L’analisi di Short sulla conoscenza maoista delle condizioni dei contadini, sulla sua saggia impostazione della guerra di guerriglia, la capacità di dare una veste cinese al linguaggio cominternista, è più convincente dell’appassionata requisitoria della ex guardia rossa. Però sui punti centrali è la Chang che ha ragione: senza l’Urss Mao non avrebbe fatto un passo; il terrore non è una caduta di stile ma la sua scelta di fondo; l’opportunismo, anche nella guerra antigiapponese, è simmetrico agli atteggiamenti staliniani verso Hitler (l’entusiasmo di Mao per il patto Ribbentrop-Molotov). Essenziale la scelta di sacrificare milioni di contadini per armarsi e poi inseguire la bomba atomica: scelta che scompare dal racconto di Short.
Un certo stile Bbc, la prudenza nel demonizzare i soggetti studiati, aiuta Short a essere convincente, ma è imbarazzante quando presenta come «ricerca di umanità» il sesso del tiranno vecchio e debosciato con le ragazzine. O quando presenta le trappole maoiste preparate per ingannare il suo stesso gruppo dirigente come aperture alla democrazia. È più convincente quando paragona Mao al crudele imperatore Qin Shihuangdi che nel III secolo a.C. riuscì a unificare il Paese, assicurando continuità a una civiltà già millenaria. Mao, giovane studente nazionalista, di una provincia independentista come l’Hunan, trasformò l’ideologia comunista in una pura logica di comando capace di unificare una nazione squassata dai rapporti con la modernizzazione. Su tutto prevale il potere assoluto del «centro», l’amalgama tra partito ed esercito che comanda a Pechino e riesce a legare le masse contadine allo Stato a prezzo di una dittatura sulle condizioni di vita nelle campagne, spesso peggiore di quella che c’era con l’impero: con Mao un giovane Mao, outsider, non avrebbe fatto carriera. Scomparso Mao, il vecchio saggio Deng Xiao-Ping ha riempito la cornice del potere del partito-esercito del popolo con un’economia aperta ai commerci, poi protagonista nel mondo.

Che cosa questa società, il cui nocciolo è ancora maoista tra sistema di comando e anima nazionalista (anche se l’ideologia comunista è un ferrovecchio), che cosa questo potere centralizzato, burocratico-militare, l’oppressione dei contadini e le grandi aperture produttive e della ricerca, preparino per il futuro, nessuno è in grado di prevedere. Tra molte speranze e altrettante preoccupazioni.

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