Cronaca locale

Maratona pasoliniana, ultimo atto

«Bestia da stile» conclude oggi la minirassegna ideata da Latella, regista e sacerdote della parola

Miriam D’Ambrosio

Una specie di testamento senza eredi. Perché a chi l'ha scritto non interessava lasciare eredità. Voleva solo dire tutto quello che ha detto. E anche di più, forse, visto che per scrivere Bestia da stile, Pier Paolo Pasolini ha impiegato nove anni, dal 1965 al 1974.
Un'autobiografia che parla di poesia, che è poesia. «Un testo - non testo che è un grande diario dove si indaga sul senso dell'essere poeta o, per noi attori, sul senso del fare teatro». A parlare è Marco Foschi, protagonista di Bestia da stile, terzo affondo del regista Antonio Latella nella poetica di Pasolini, in scena al Teatro Out Off stasera e sabato, conclusione della maratona pasoliniana, ultimo spettacolo della trilogia, dopo Pilade (15.30) e Porcile (alle 19).
«Si tratta di una sorta di diari privati, una lunga, enorme, tremenda, struggente confessione - continua Foschi - noi in scena abbiamo un rapporto emotivo e privato con la materia da trattare, da affrontare. C'è sicuramente una disposizione all'empatia da parte di tutti noi, uno stare insieme condiviso che è momento di confessione».
Gli attori in scena sono tredici (Foschi compreso, che è il protagonista Jan, e che per questo ruolo ha ricevuto il Premio nazionale della critica come miglior attore). Antonio Latella ha voluto una regia di gruppo, per avere sul testo sguardi diversi, vestire le parole di sfumature nuove, di accenti che appartengono a ciascuno dei suoi attori, affinché siano interpreti e autori. E, d'altra parte, vedere l'attore come autore delle parole che porge al pubblico, «è uno dei capisaldi della metodologia di Latella», sottolinea Foschi. E il piacere della parola diventa rito officiato dai sacerdoti - attori.
Jan, il poeta «ebbro d'erba e di tenebre», si racconta, e di sé stesso dice: «Sono un piccolo borghese con un piccolo infinito mondo campestre». Una frase che lo fa assomigliare a Julian di Porcile.
«In Pilade c'è una storia, un'evoluzione precisa, ma qui no - chiude l’attore - questa è una confessione pubblica forzata, e come tale necessita di un patibolo. Esiste la condizione di un oratorio della parola. Noi siamo tutti in proscenio, in frac, come per un concerto. Alle spalle c'è un sipario rosso chiuso, e unico elemento scenico sono i tredici sgabelli in primo piano. E luci di sala accese. Tutte». Luce piena, che illumina spettatori e attori allo stesso modo, uniforme. Non ci si può nascondere gli uni agli altri. Evidenza assoluta. Una confessione priva di ombre, finale.
«Jan è stato un personaggio più difficile di Pilade - aggiunge Foschi - e non per memoria o per tecnica, ma perché siamo esposti al giudizio, nudi completamente, anche se perfettamente vestiti. È una violenza e mi pesa di più».

Una violenza la condizione in cui Antonio ha messo Marco Foschi, Annibale Pavone, Rosario Tedesco, Cinzia Spanò, Stefania Troise, Marco Cacciola, Giuseppe Lanino, Marco Martini, Giuseppe Massa, Giuseppe Papa, Giovanni Prisco, Mauro Pescio, Enrico Roccaforte.

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