Eccola qui, l’altra Italia. L’Italia nascosta, che non fa notizia, di cui tanti parlano e nessuno si occupa. Eccola riemergere dalla palude di chiacchiere e di amenità, dal Paese vanesio e fricchettone che ormai sembra popolato solo di Amande fumate e tipi notturni ad alta gradazione alcolica.
L’altra Italia, che tutti citano per strappare applausi nei salotti del grande rotocalco nazionale, ma che in realtà non ottiene mai veri riguardi, ha la faccia vagamente pacioccona, molto normale, quasi anonima, di un maresciallo dei carabinieri. Questa bella faccia, occhialuta e mansueta, tipo ceto medio impiegatizio, è distesa sul cuscino di un ospedale d’estrema provincia. È la faccia un po’ così del maresciallo capo Francesco Ferro. Non sapessimo quello che ha appena combinato, la diremmo faccia da scritturale di fureria, da militare d’ufficio, dedito da troppo tempo alla lenta battitura di denunce per furto d’autoradio e tamponamenti all’incrocio.
L’altra Italia è tutta così: non ha la faccia giusta di un Fabrizio Corona, di un Fiorani, di un Coppola o di un tronista, ma è capace di cose grandiose. Per quattro soldi sul listino paga, è capace di giocarsi la vita in un’alba livida e cupa, lungo i sordidi itinerari del Far West padano. Lui, il maresciallo, e l’altro, il suo appuntato: lui e l’altro, in due, contro quattro tagliagole senza Dio e senza legge, pronti ad ammazzare senza troppi pensieri e senza alcun rimorso, perché nel loro mondo e nella loro zucca la vita vale meno di una dose.
Dopo tutto questo, il maresciallo capo Francesco Ferro giace sul guanciale lindo e racconta con voce calma la sua festa dell’Immacolata. Potrebbe rivendicare un sacco di meriti, potrebbe scomodare toni epici da Tex Willer, invece parla timidamente da uomo semplice, come dovrebbero parlare tutti i veri servitori dello Stato: «Ho avuto una paura terribile. Ma quando ho visto scorrere il sangue, non ho esitato». I giornalisti provano a scucirgli qualche parola in più, almeno una frase che resti scolpita sopra la memorabile impresa: maresciallo, si sente un eroe? Lui scuote il capo: «No, ho fatto solo il mio dovere». E lo ripete una seconda volta: «Facciamo solo il nostro dovere». Poi gli sfugge, nel modo più spontaneo e naturale, persino la parola che non si usa più: «Grazie».
Nel luna-park chiassoso e strillato delle nostre cronache, il grazie educato del maresciallo risuona come un grido dignitoso e fiero. Ha messo la vita sul piatto della nostra sicurezza, la stessa sicurezza che in Parlamento si stanno allegramente giocando con minuetti e ripicche, ma conclude la sua mattinata da eroe con un colpo in pancia e un grazie alle telecamere. Non siamo più abituati, a certe esibizioni di dignità. Che dovremmo dire noi, a questo punto, davanti alla naturalezza e alla modestia di un simile grazie? Noi che tutti i giorni veneriamo eroismi fasulli, omaggiando e riverendo personaggi patacca?
Di fronte a casi come questo, solitamente ci riesce persino di dire che non bisogna esagerare con la retorica. E forse è pure vero che rendere omaggio a un carabiniere nell’esercizio del suo dovere diventa inevitabilmente retorico. Ma è un rischio che non bisogna più temere di correre. Quelli dei distinguo, delle analisi scettiche, dei ma-se-però, quelli che per evitare un aggettivo vagamente mieloso preferiscono stare zitti, sono poi gli stessi che fanno i pavoni nei Ballarò e nei Porta a porta, dicendo «noi stiamo qui a raccontarcela, ma là fuori c’è un’altra Italia». Fossero sinceri, finirebbero di raccontarsela. E davvero proverebbero a considerarla, l’altra Italia. Quella dei giovani papà piemontesi che muoiono carbonizzati in acciaieria, dopo dodici ore di lavoro sporco, per 1.400 euro al mese. Quella dei marescialli e degli appuntati che affrontano - due contro quattro - la banda multietnica dal grilletto facile, anch’essi per stipendi imbarazzanti...
Il nostro grazie? Subito dopo la sparatoria, il maresciallo capo Francesco Ferro e il suo appuntato Pasquale Busto finiscono dritti sul registro degli indagati. «È un atto dovuto», si affrettano a chiarire i magistrati. Perfetto. È un atto dovuto. Ma niente vieta di dire, almeno, che certi atti dovuti andrebbero aboliti. Per quanto dovuti, restano disgustosi.
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