Ma Marinetti se ne infischia del Corriere

Marinetti definì il Corriere della Sera "Centrale severa del Grigio e del Conservato Sempre". Il quotidiano milanese concesse pochissima attenzione alla nascita e allo sviluppo di un movimento che stava conquistando l’attenzione della stampa internazionale

Ma Marinetti se ne infischia del Corriere

Filippo Tommaso Marinetti definì il Corriere della Sera «Centrale severa del Grigio e del Conservato Sempre». Non aveva tutti i torti, se pensiamo che il quotidiano milanese concesse pochissima attenzione alla nascita e allo sviluppo di un movimento che - cresciuto proprio a Milano - stava conquistando rapidamente l’attenzione della stampa internazionale.

Sfogliando le annate del Corriere diretto da Albertini, si scopre che Boccioni viene ignorato e che non si dà notizia della pubblicazione dei Manifesti, mentre vengono riportate con compiacimento le cronache, fiorite da commenti indignati o canzonatori, di zuffe e colluttazioni. Nel 1910, viene riservato molto spazio al processo per oltraggio al pudore subito da Marinetti per il suo Mafarka, ma con un taglio decisamente poco equo: un trafiletto fitto di recriminazioni sull’assoluzione, contro un compiaciuto articolo di commento alla condanna decisa in Corte d’appello... Oltre a questo, quasi nulla. Del resto, Marinetti era convinto che «Tutto ciò che viene immediatamente applaudito, certo non è superiore alla media delle intelligenze ed è quindi cosa mediocre, banale, rivomitata o troppo ben digerita».

A distanza di cento anni, pure il Corriere della Sera ha dovuto dedicare pagine e pagine al futurismo, riconoscendone l’importanza e l’interesse: anche grazie alle celebrazioni che hanno indotto il pubblico - poco educato dalla scuola (e dai giornali) - a conoscerlo e a apprezzarne i meriti. Ma Filippo Tommaso, che teorizzava «la voluttà di essere fischiati», avrebbe apprezzato di più l’articolo di Pier Luigi Battista uscito ieri proprio sul Corriere, dove Battista - che del quotidiano è vicedirettore particolarmente addetto alle pagine culturali - si chiede se «è così inopportuno e riprovevole affermare che il Futurismo, chissà, è stata una boiata pazzesca».

Certo, Battista riconosce che dobbiamo inorgoglirci per le opere di Boccioni, Carrà e Balla, per le intuizioni di Sant’Elia e per la creatività futurista che ha inciso in ogni campo delle attività umane. Però sospetta che il movimento abbia raggiunto le «vette un po’ macchiettistiche del fanfarone italiano, petto in fuori e testa calda». E anche se fosse? Il servigio che il futurismo ha reso all’Italia è stato appunto di essere un movimento nato e cresciuto in Italia, e che per un certo periodo ha riportato all’avanguardia - dopo secoli - la nostra cultura, che è fatta anche e necessariamente del nostro modo di essere. Non a caso l’italianismo era uno dei vanti di Marinetti, proprio quell’italianismo petto in fuori che non è uno dei difetti peggiori del nostro popolo: il quale deve vedersela ancora, nonostante il futurismo, con un guasto maggiore, la «genia degli avvocati e dei professori», come sosteneva Marinetti.
Il quale non piace affatto a Battista, che lo liquida come una macchietta intenta a seduzioni sbrigative e a coiti veloci. Eppure non ci vuole tanto a considerare che - senza Marinetti - probabilmente Boccioni sarebbe rimasto un pittore sconosciuto e che l’Italia non avrebbe avuto la primogenitura di tutte le avanguardie del Novecento.

No, Zang Tumb Tumb per Battista è una «puerile filastrocca», e chi sa cosa ne penserebbe Giuseppe Ungaretti, che dal parolismo - insieme a tanti altri poeti - ricevette la spinta a sciogliere il rigore del verso.

Chissà, forse ha ancora ragione Marinetti quando accusava il Corriere di «opposizione mediocrista». Di certo ripeterebbe, beato: «Ringrazio gli organizzatori di codesta fischiata, che altamente mi onora».

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