«Marley passava ore a parlare di Bibbia e Jagger tifava Italia»

«Marley passava ore a parlare di Bibbia e Jagger tifava Italia»

da Roma

Per tanti di noi cinquantenni Carlo Massarini è Mr. Fantasy. Il nome d'arte, usato per una fortunata trasmissione di videoclip in onda dal 1981 al 1984, lo rubò a una mitica canzone dei Traffic. Nessuna sorpresa, allora, se nel mettere mano a un libro per Rizzoli (350 pagine, esce a Natale), il 55enne giornalista-presentatore spezzino abbia scelto per titolo Dear Mr. Fantasy. Chiuso nella sua torre medioevale alle porte di Roma, dove vive con moglie e figli, Massarini sta dando gli ultimi ritocchi ai testi e alla selezione delle fotografie, tutte da lui scattate nel periodo cruciale 1969-1982. Una sorta di viaggio, anche intimo, negli anni in cui si occupò di rock: alla radio con Per voi giovani, sulla carta stampata per Popstar, in tv con Mister Fantasy. La voce vellutata è sempre quella. Il viso da eterno giovanotto, appena solcato da qualche ruga, pure. L'umore, invece, è variabile.
Premette: «Diciamo subito che non è una storia del rock. Non ci sono tutti, solo quelli che ho conosciuto e fotografato. Una specie di diario di bordo che si rivolge a quelli della mia generazione o giù di lì. Magari avranno piacere di rivisitare quella stagione, senza troppa nostalgia. Un po’ sono ricordi miei, un po’ di altri. Nessun copia-incolla di articoli scritti allora. A rileggere certe mie recensioni inorridisco». Chiedo: non si poteva trovare un titolo diverso? «Mah, i Traffic sono il mio gruppo preferito, mi hanno cambiato la vita, ero in totale delirio per loro. E poi la gente mi conosce come tale. Il libro è un Caro amico ti scrivo al Signor Fantasia. La fantasia era davvero al potere in quegli anni».
A scanso di equivoci, il volume si apre e si chiude con i Rolling Stones.
«Non è un caso. Era il 5 luglio 1969. Neanche diciottenne, mi ritrovai sotto il palco, al concerto di Hyde Park in memoria di Brian Jones, con la macchina fotografica di papà. Fare il servizio fu facile, oggi sarebbe impossibile. L'ultimo scatto è dal concerto torinese dell'11 luglio del 1982, la sera che l'Italia vinse il Mondiale, con Jagger in maglia azzurra. Nel frattempo ero cresciuto e avevo intervistato gli Stones».
Tanti sono i big ritratti. «Tra gli italiani Venditti, Finardi, Bennato, il Banco del Mutuo Soccorso. Con molti nacque un'amicizia, grazie a Per voi giovani. Arbore s'era dedicato ad Alto gradimento. Mi chiamò Paolo Giaccio, conduceva con Mario Luzzatto Fegiz, in diretta. Ma si fecero prendere la mano dal clima politico del tempo: scuole occupate, cortei, fabbriche. Così Giaccio finì a Londra e io fui promosso al microfono con Fegiz. Allora non esisteva la tirannia delle play-list».
Già. E le rock star erano più disponibili, abbordabili. «Be', con Jackson Browne ancora ci sentiamo. Poi i Ramones, i Clash, i Police, i Queen, Patti Smith, Graham Parker, Al Jarreau... Un bel rapporto nacque con Peter Gabriel dei Genesis e Peter Hammill dei Van der Graaf Generator. In Inghilterra non se li filava nessuno, suonavano nel circuito delle scuole». Davvero? «Mi creda. Nel 1972 i Genesis erano messi maluccio in patria. Da noi, invece, scalarono la classifica con Nursery Crime. Dissi a Gabriel che avevo studiato medicina. Così, negli anni, mi ha chiamato “the radio doctor”, poi “the tv doctor”, infine “the net-doctor”. Un altro legame speciale lo devo a Bob Marley, fu molto gentile». Strano, perché detestava i giornalisti. «Ha ragione. Le racconto come andò. Londra 1977, non voleva dare interviste. Seppi che abitava dalle parti di Kensington. Lo bloccai per strada, con le treccine al vento. Stretta di mano e via a parlare della Bibbia. Ventiquattro ore dopo giocavamo insieme a pallone, c'è una foto che attesta. Ancora oggi sento una sorta di reverenza nei suoi confronti, è stato il più grande di tutti. A tratti l'ho vissuto come una figura paterna, pure autoritaria, mi prese sotto le sue ali».
Da sei anni, dopo l'esperienza di MediaMente per Rai Educational, Massarini non è un più un volto televisivo. Le manca? «Sì, anche il mio commercialista lo dice», celia. «Per lavorare in tv devi saper far due mestieri. Uno è pensare e presentare, l'altro è trovare il lavoro, il che richiede più applicazione del lavoro stesso. La tv è cambiata in peggio. È indiscreta, sciatta. Va bene, tutti hanno diritto di apparire. Ma è una falsa democratizzazione, l'accesso è regolato da scelte ciniche». Quindi... «Quindi non mi chiamano. Ho fatto una tv divulgativa di qualità medio alta. Credo di essere stato un tramite fra la musica o la rivoluzione digitale e il grande pubblico. MediaMente è durato dal 1995 al 2002, passando per vari direttori di rete. Poi arrivò Minoli, disse che Internet era poco interessante, azzerò tutto e si prese La Storia siamo noi per farne il suo palcoscenico. L'uomo lo conosciamo tutti. Nell'anno in cui Berlusconi parlava delle tre “i”, Minoli ha chiuso, con MediaMente, anche un centro di ricerca e produzione».
Nel salutarlo, gli domando se l'età un po’ gli pesa. «I 50 è un bel giro di boa, me ne accorgo quando gioco a basket.

La vita ti cambia, crescere quattro figli è una responsabilità, anche se dentro mi sento un trentenne. Vuole sapere se mi sento avvilito, amareggiato? No, ma ho la sensazione che potrei fare qualcosa di più utile rispetto a ciò che sto facendo».

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