Maroni vuole spodestare Bossi Il Cav: il governo non corre rischi

Dai referendum alla manovra, dai ministeri al Nord al voto su Papa: per recuperare voti Maroni vuole tornare alla "lotta" delle origini". Adesso è guerra con Calderoli che sul voto su Papa svela: accordi diversi. Ma è giallo sul numero dei deputati che hanno dato il via libera. Il Cav spegne le polemiche: nessun rischio per il governo

Maroni vuole spodestare Bossi 
Il Cav: il governo non corre rischi

Sassofonista da giovane, batterista per scaricare la tensione da ministro, ora pure pianista: l’altro giorno Roberto Maroni ha lasciato i banchi del governo per farsi immortalare mentre pigiava i tasti che impallinavano il collega pidiellino Alfonso Papa. I «suoi» deputati, non potendo godere dello stesso favore dei fotografi, hanno fatto le contorsioni con i telefonini per consegnare alla storia gli scatti giustizialisti. E tanti saluti alla libertà di coscienza garantita da Umberto Bossi a Silvio Berlusconi.
Un voto segreto che diventa palese. Una possibile scappatoia da prima Repubblica trasformata in una teatrale prova di forza. Un braccio di ferro vinto con facilità, e giocato contemporaneamente su due tavoli, alla Camera e al Senato, dove sono stati anche i leghisti di fede maroniana a salvare dall’arresto il dalemiano Alberto Tedesco, ex assessore nella Puglia di Nichi Vendola. Il messaggio è chiaro. L’azionista di riferimento della Lega è lui, Maroni. L’ha riconosciuto anche Antonio Di Pietro, corso a stringere la mano all’«ottimo ministro dell’Interno». Ora gli accordi con Berlusconi non sono più esclusiva di Bossi. Il Senatùr passa in seconda fila, o quantomeno la prima fila è doppia come in Formula 1.
Nel Parlamento dove il governo è ostaggio dei sotto-partiti, questo è il momento degli uomini di Maroni. Un anno fa era la pattuglia di Fini a fare traballare la maggioranza. Il Fli è stato rimpiazzato dai Responsabili, accorsi a puntellare la maggioranza e premiati con un ministero e qualche sottosegretariato. Stavolta il pallino è in mano a una frazione della Lega Nord, quella meno istituzionale, più di lotta che di governo, che ha incarnato il pugno di ferro del «law and order» e non ha mai salutato con entusiasmo eccessivo il percorso del federalismo fiscale.
Se si dovesse votare domani, probabilmente Maroni non incasserebbe la maggioranza dei voti del Carroccio. Tuttavia oggi ha dalla sua una importante fetta di parlamentari, e questo basta per dettare nuove condizioni agli alleati del Pdl. È una mossa che ha sorpreso il Cavaliere, il quale non ha mai dubitato della fedeltà leghista. Ogni lunedì sera le cene di Arcore con Bossi, Maroni, Calderoli, i «pontieri» pidiellini Tremonti e Brancher, consolidavano l’asse portante del governo. Quello padano era l’unico fronte dal quale Berlusconi non temeva agguati.
E invece il Sole delle Alpi si eclissa. Bossi evita l’appuntamento del voto su Papa, e cede la ribalta al suo colonnello aspirante generale. Maroni è un bravo ministro dell’Interno, con qualche pecca: i fantasmi delle ronde padane e la gestione dei clandestini dal Nordafrica in fuga dalla guerra in Libia. Quell’emergenza poteva incrinare irreversibilmente l’immagine del numero 1 del Viminale, costretto a lasciare che gli immigrati evadessero dai centri di accoglienza per disperdersi in tutta Europa. La reazione dell’opinione pubblica è suonata come un campanello d’allarme per Maroni. Parlamentari e amministratori locali gli hanno confermato che la Lega doveva cambiare registro, non poteva più traccheggiare. Il partito perde voti. Il federalismo va a rilento, e chissà quando i cittadini potranno toccare con mano qualche vantaggio. Bossi e Calderoli sono impaniati in ipotesi di riforme che la gente fatica a capire.
Sono mesi che Maroni lavora alla sua alternativa. Ha votato «sì» ai referendum. Ha schiaffeggiato Tremonti e la sua manovra: «Ci vuole più coraggio». Ha ignorato le battaglie per trasferire al Nord i ministeri. E ha scelto di tornare indietro di quasi vent’anni, al partito che agitava il cappio in Parlamento, tirava le monetine ai politici e la volata ai magistrati d’assalto. Se il partito perde terreno ci vuole una svolta «popolare» che rincorra i rancori sociali e le proteste anti casta.

Che ignori il contesto internazionale in nome dei tagli ai costi della politica: infatti il passo successivo è stato annunciare voto contrario a rifinanziare le nostre missioni militari all’estero. «Discontinuità» è la nuova parola d’ordine di Maroni. Che punta a pensionare Bossi, Berlusconi e Tremonti con un colpo solo. Uno «strike» ad alto rischio.

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