«Come si chiama il mio partito? Novantaquattro». Antonio Martino non è un reazionario. È un uomo che ha passato la vita a sognare la «rivoluzione liberale». Lo ha fatto con il disincanto di chi conosce la classe dirigente italiana, che anche quando parla di mercato non nasconde la nostalgia per l’Iri. Martino non vuole morire democristiano, neppure socialista, tantomeno confuso in qualche «cosa» di stagnante e indefinito. Vuole solo riprovarci. Scommettere su un altro finale di partita. Il professore, ex ministro degli Esteri, economista che non ha mai rinnegato i Chicago Boys, deputato del Pdl, pensa al 1994 e vede una sliding door , la porta scorrevole che l’Italia non ha preso, il futuro sfumato , l’occasione perduta, quello che poteva essere e non è stato. Ogni volta che Martino parla con Berlusconi ripete le stesse parole: «Dobbiamo ritrovare lo spirito del novantaquattro ».
E il presidente cosa risponde?
«Che ho ragione. Solo che...».
Solo che?
«Siamo rimasti in pochi di quella stagione. Ma anche lui sa che se vuole lasciare un segno nella storia non può limitarsi a governare. Non è ancora tardi per dare a questo Paese un futuro diverso. Lo spirito del ’94 significa fare quelle riforme rinviate per vent’anni: fisco, welfare, lavoro, giustizia. Berlusconi ha vinto le elezioni ogni volta che ha abbracciato le idee liberali».
Il 1994 non è l’altroieri. Sono tanti anni. Non si potevano fare prima le riforme?
«Non ci siamo riusciti. Il guaio di Berlusconi è che ha sempre governato con alleati innamorati dello status quo . Non voleva le riforme Casini. Non le ha volute Fini. Non le vogliono neppure adesso».
La riforma della giustizia è diventata un pantano.
«Berlusconi doveva farla subito, nei primi giorni dopo la vittoria del 2008. E poi il fisco. Ma anche qui hanno vinto gli stopper».
Chi sono gli stopper?
«Sul fisco, Tremonti. Il ministro ha retto la baracca sui conti pubblici, ma poteva osare di più. La riforma del fisco avrebbe razionalizzato il gettito. Questo non significa incassare di meno».
Stesse tasse?
«No, tasse più eque. C’è chi le imposte le paga troppo, più del cinquanta per cento del reddito, e tanti che sfuggono al fisco».
Evasori?
«Non tanto. Gli evasori ci sono, ma rischiano di diventare una scusa. Il vero problema è un sistema fiscale farraginoso che permette a tanti contribuenti di pagare poco senza violare la legge. È il popolo degli elusori fiscali. Il nostro fisco fa ricchi i commercialisti e i loro clienti migliori. Il paradosso è che il gettito fiscale è irrisorio, non supera il 19 per cento».
Tremonti non vuole la riforma. Ma il premier è Berlusconi.
«Tremonti ha molto più potere del presidente del Consiglio. Il suo superministero ha concentrato ben cinque vecchi dicasteri forti: Tesoro, Finanze, Bilancio, Partecipazioni statali e Mezzogiorno. È lui che ha le chiavi della cassaforte ».
E la cassaforte è potere.
«Non c’è dubbio».
Il Pdl è in fermento. C’è troppa gente che pensa al dopo. Sembrano tanti ciclisti in attesa della volata finale. Solo che nessuno parte e il risultato è che tutti stanno fermi sui pedali in attesa di vedere chi lancia lo sprint. Quelli del ’94, i vecchi amici di Berlusconi, che fanno? Partecipano alla gara?
«No. Quelli che pensano troppo al futuro rovinano il presente. Il Pdl non è ancora all’altezza di Berlusconi. È la maledizione dei partiti carismatici. Ci vuole una classe dirigente di grande livello per costruire un futuro che non sia legato solo alla figura straordinaria del capo».
E invece?
«Non c’è ancora. Ognuno pensa in piccolo, al suo giardinetto, alle sue rivalità. Ci sono i fedelissimi del premier, ci sono tante tribù di ex An e ci sono gli ultimi arrivati, i salvatori della maggioranza, quelli che pesano di più».
Non le piacciono i responsabili?
«Non mi piacciono gli aut aut».
È deluso dal Pdl?
«Sono uno che non si accontenta ».
Allora è deluso.
«Il ritorno al ’94 significa anche questo. Ricostruire e motivare una classe dirigente. Non selezionare i mediocri, ma i migliori. Puntare sulle nuove generazioni e coinvolgerle in un progetto politico di grande respiro. L’Italia deve uscire dal Novecento. Nel ’94 ci hanno chiuso la porta in faccia. Quasi vent’anni dopo è un delitto restare prigionieri di questo limbo, dove la massima aspirazione è tirare a campare ».
Perché scommette ancora su Berlusconi?
«Perché è l’unico che può fare una cosa del genere. Non ci sono alternative. Si guardi intorno. Chi vede? Berlusconi può ancora essere l’uomo delle grandi riforme. È un uomo assediato, deluso, ferito, ma è l’unico che ha la statura per un’impresa del genere. Il Pdl deve tornare a credere in lui e smetterla di arrabattarsi in rivalità piccole e mediocri».
Sulla scena è tornato anche Scajola.
«Mi ha chiesto di fare il presidente d’onore della fondazione Cristoforo Colombo e io ho accettato con piacere. Non sono stato d’accordo con lui quando ha ipotizzato di costituire un gruppo parlamentare autonomo. Sono certo che anche lui lavorerà per il partito delle grandi riforme».
Come si seleziona una classe dirigente?
«Con vere primarie. Non quelle finte che fa la sinistra».
La prima mossa per ridare un’anima al Pdl?
«Avere un segretario unico. Quando un partito è guidato da tre coordinatori non si sa mai, nel bene e nel male, di chi sono le responsabilità. In tre non si paga mai pegno».
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