Non sono più di una manciata, in Italia, gli scrittori di cui è opportuno leggere tutto, qualunque cosa scrivano, quale che sia il grado di riuscita delle loro opere. Scrittori che in un modo o nell'altro infilano sempre nelle loro opere qualcosa di importante, qualcosa - come si dice - da portare a casa. Potrei citare Aldo Busi, Walter Siti, Francesco Permunian e pochi altri. Tra questi, uno senza dubbio: Aurelio Picca.
Quando lessi, nei primi anni '90, la sua prima raccolta di racconti, La schiuma, scrissi sul leggendario settimanale Il Sabato che Picca era la miglior penna della letteratura italiana. E, nonostante l'andamento desultorio della sua opera, non ho mai cambiato idea. La sua lingua è speciale, unica, piena di umori terragni ma senza identificarsi con essi; è un bulbo, un rizoma cresciuto senza seminagione, oggi con termine un po' fighetto si direbbe: un numero primo.
E quello c'è sempre, anche quando il libro sembra non reggerne l'altezza. La sua forza resiste agli obiettivi centrati e a quelli sbagliati, ed è per questo che bisogna leggerlo sempre. Ne fa fede questo suo ennesimo libro su Roma mia, non morirò più (La Nave di Teseo, pagg. 380, 22,00) che fa seguito ad altri libri come Arsenale di Roma distrutta (2018) o come Il più grande criminale di Roma è stato amico mio (2020). Non si tratta di romanzi veri e propri, ma di libri scritti secondo un genere letterario spurio, sporco, tra finzione poetica (o narrazione poetante) e cronaca.
Roma mia, non morirò più appare inizialmente come una miscellanea di scritti probabilmente risalenti a date e momenti diversi, cui Aurelio, ritrovandoseli davanti, abbia voluto (e saputo) togliere le difformità dovute alla contingenza occasionale (un articolo, una pagina di diario, un breve testo per la tale rivista) per edificare, mattoncino dopo mattoncino, il grande, impossibile ritratto di Roma.
Qui come negli altri libri, Aurelio cerca Roma, ossia il mondo, allestendo un duello senza quartiere tra la Roma reale, sorniona, gattona che si rivela girando per quartieri, case, palazzine e palazzoni, bellezze e obbrobri, corridoi, stanze, odori, frammenti di biografie - insomma la Roma che potremmo definire normale; e la Roma che la memoria mitopoietica di Picca ha elaborato con ostinazione popolandola di Maserati, motociclisti, pugili, furti di gioielli. Il risultato è questa lunghissima serie di cartoline, come le chiama lui, in cui lo scrittore si muove dentro una specie di labirinto. Non ha l'ambizione, e nemmeno il tempo, di fare ciò che fece Balzac con Parigi - benché Picca abbia qualcosa di balzacchiano nelle sue viscere, la tendenza a una specie di delirio tassonomico, enciclopedico. Ma in questa sua affannosa ricerca di Roma (ovunque, in un negozio di cianfrusaglie, in un caseggiato, presso un distributore di benzina, in qualche palestra scaciata) alla fine la preda viene catturata, o è soltanto una rincorsa senza fine? La mia risposta è che la cattura c'è, ma non in qualche volto o oggetto o monumento: la cattura c'è in tante "situazioni di stile" o "di linguaggio" che di tanto in tanto si aprono, improvvise, strazianti, commoventi, spesso all'improvviso dentro testi che sembrerebbero occasionali. Sono porte regali che si spalancano in tuguri, e la loro consistenza è di puro stile, di pura eleganza. È questa la ragione per cui dico, e ripeto, che i libri di Picca vanno letti sempre, in tutti i casi, perché nei libri di Picca ci si imbatte sempre, e spesso all'improvviso, nella maestà della Letteratura. Leggere un libro di Aurelio Picca è come una battuta di caccia, o come una gita nell'Italia Centrale dopo che si è rotto il navigatore satellitare, e i borghi più belli del mondo ti si parano davanti (che so, Sorano, Pitigliano...) all'improvviso, dove tu credevi ci fossero soltanto selva, e colli ispidi, e lupe, e leoni, e lonze.
Un'ultima osservazione. Tengo davanti a me tutti e e tre i libri di Picca contenenti la parola Roma, e capisco che sono tutti spin-off di un libro che esisteva prima, forse da sempre, ma che non è ancora stato messo su carta, e che col passare del tempo è sempre meno probabile che nasca, perché Roma come Parigi ti mangia vivo. Capisco l'urgenza di presentarci una Roma ancora capace di salvare la memoria di Pasolini differenziandosi da altre Rome (penso a quella, non meno importante, di Sandro Veronesi). Ma per riuscire in un'impresa simile occorre essere molto giovani e presuntuosi oltre che geniali.
Mi permetto perciò di dire che il grande capolavoro che Picca ci ha promesso fin dalla sua prima riga ci potrà essere
- io ci credo profondamente - però via da Roma! Serve la metafora definitiva. Vada a Città del Messico, a Tokyo, a Mumbai, ambienti lì il suo grande romanzo, e noi finalmente ci troveremo Roma: non un frammento, ma tutta.