Massimiliano Governi e i delitti a sangue caldo

Massimiliano Governi e i delitti a sangue caldo

Per attenerci al disincanto, che ha già vissuto illusioni, canti e magie, si può narrare in maniera bulimica o anoressica; verticale o orizzontale; disinvolta o ossessiva. Massimiliano Governi di nuovo, in Il superstite (edizioni e/o), è scarno. Anzi, pianta la scrittura sulla pagina come tante ossa rotte che suonano motivetti esistenzialisti e assurdi. Gli si fa torto a indicare questo romanzo come il A sangue freddo italiano. Rischia di diventare un mantra (parola che detesto) e soprattutto una patch (toppa). È vero che Governi butta subito là il capolavoro di Capote (Musa ispiratrice; grande narratore orizzontale «il nano rosa» che accumula cronaca e dettagli ricoprendo l'intera pianura fino alla linea dell'orizzonte) perché al Superstite è toccata una storia molto simile a quella carpita da Truman in Kansas dove due tocchi di mente sterminarono, con la freddezza dei rettili, quattro membri di una famiglia.

Infatti all'allevatore di polli italiano, un serbo stermina la famiglia di provenienza. Ma Governi in tutto ciò è interessato a desertificare paesaggio, uomini, cose e storia stessa. Governi non vuole riconsegnare l'interiorità o il corpo ai personaggi che descrive. Lui non solo li vuole scindere, ma pretende - riuscendoci con talento agonistico e ossessivo - di sradicarli dalla realtà e porli su un piano che chiamerei dell'assurdo. Intanto il romanzo lo dedica a Primo Levi facendo slittare il suo esistenzialismo sul confine dell'uomo errante e dunque senza dimora e patria: l'ebreo della diaspora. Come - è qui il propulsore - si incontra a ogni svolta di pagina Kafka: Il processo. Non a caso l'avvocato del dibattimento processuale è con «la nera toga dalle ali di pipistrello». Ogni azione ne Il superstite si carica o depotenzia nel vuoto, nell'assenza. E proprio come avviene nella lettura di Kafka, l'assurdo genera comicità involontaria. Governi pone addirittura la condizione del sesso e dell'amore in una zona di non ritorno, anzi, di «non luogo a procedere». Per lo scrittore valgono soltanto le parole in forma di croci che il protagonista costruisce con il parquet divelto nella villa del massacro, per riempirci il giardino a Ferragosto: data dell'eccidio.

Un unico Cristo meno seriale viene costruito con filo di ferro e carta di giornale inumidita e lavorata che fa pensare ai calchi di Pompei.

Occorre per il rito esorcistico che chiude il romanzo. Bisogna dunque distruggere il fantasma di A sangue freddo (grande ironia ancora sul tema dell'assurdo). Come fare? Non leggerlo e bruciarlo ai piedi della croce.

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