Tutti noi, che da ragazzini ci siamo divertiti a tirare quattro calci al pallone, abbiamo avuto un Marco Materazzi nella nostra squadra. È il giocatore che avremmo voluto stesse sempre con «gli altri». È quello che stabilisce in che punto del campo devi metterti, che ti insulta se non fai quello che vuole lui, che si riserva, ovviamente, il ruolo più importante, che tira le punizioni, i rigori, i corner, anche se sarebbe meglio che si mettesse in disparte. E quando si vince è merito suo, se si perde è perché non si è fatto come voleva lui.
Il Marco Materazzi che imperversava nelle nostre squadrette di ragazzi in periferia è un incubo. Speri sempre che abbia linfluenza e che almeno una volta ti lasci giocare in santa pace. E invece è impossibile, perché quando manca il Materazzi ce nè sempre uno di turno che lo sostituisce. Insomma, Materazzi è una figura indistruttibile e inevitabile del calcio fai da te, cioè quello che si gioca alla viva il parroco nei campetti di periferia. Crescendo, sbiadisce un po tutto di quegli anni adolescenziali - i campetti, i compagni, il parroco - e si scolora anche la figura del Materazzi.
Ma la vita, come si sa, ha sorprese infinite. Ed ecco la sorpresa di vederti giocare nella Scala del calcio, San Siro, un Materazzi vero e proprio, in carne e ossa, come quello dei tuoi incubi giovanili. E allora ti accorgi che i conti non tornano. Ma come? ti chiedi, ai nostri tempi ci poteva anche stare un bulletto che faceva il comodo suo, che imponeva agli altri la sua legge, un po arrogante e un po balordo. In fondo, si giocava a casaccio, senza allenatore, con un arbitro che era lamico della sorella di un compagno, con le maglie una diversa dallaltra e le scarpe con i tacchetti così consunti che sarebbe stato più prudente non averli. In questa realtà chi avrebbe avuto il coraggio di buttar fuori squadra il bulletto Materazzi? Se niente niente ci provavi, sarebbe stato lui a sbattere fuori te.
Ma è il buonsenso a suggerire che quando si fanno le cose sul serio, quando si pratica ad alto livello quel bellissimo gioco che si chiama calcio, un Materazzi non ci dovrebbe essere. E invece te lo trovi nellInter e, naturalmente, come quasi sempre, proprio come ha detto a labbra strette con il volto livido il presidente Massimo Moratti, ti fa perdere la partita.
Il vero paradosso è che Materazzi, come tutti i bulletti del pallone fatti a sua immagine e somiglianza, risulta simpatico a quelli che non sono in campo a giocare, cioè alla superstragrande maggioranza. Piace perché, come ti aspetti da un attore comico la battuta esilarante che ti ripaga del prezzo del biglietto dingresso al cinema, da lui, dal Materazzi, sai che prima o poi ti offrirà un fantastico colpo di gomito sulla bocca dellavversario, oppure che insulterà il giocatore dellaltra squadra fino a farlo diventare matto, o, secondo le circostanze e la creatività delloccasione, che gli salterà sulle caviglie, sulle ginocchia...
Domenica scorsa, però, ha dato il meglio di sé. Ha fatto quel gesto tipico, indimenticabile, dei Materazzi dei nostri incubi infantili. Prende il pallone, fregandosene degli ordini dellallenatore e dei compagni, si fa largo con le sue braccia chilometriche spostando chi osava avvicinarglisi soltanto dun paio di metri e con passo da cammello assetato si ferma davanti al dischetto del rigore: tiro, parato. Esattamente come tutti i Materazzi dei nostri incubi. Lunica differenza è che in campo cè un arbitro vero e non lamico dellamica, che lo butta fuori dopo un po.
Stefano Zecchi
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