Maura Viceconte, la maratoneta che corre per combattere i tumori

Accorgersi, in vista dell'agognato traguardo, che la gara non è finita può essere dura davvero. Maura Viceconte, 41 anni, è cresciuta correndo fra i boschi della Valsusa. Il naso all'insù a scrutare il profilo imponente della Sacra di San Michele, le gambe svelte a macinare lunghe distanze. Dieci anni e tanta fatica per arrivare al vertice, poi quando, fra 2004 e 2005, ha appeso le scarpette al chiodo, con due primati italiani in tasca - quello tuttora imbattuto sulla maratona e quello sui 10 mila metri - aveva un sorriso largo così, al pensiero di un «pensionamento» da vincitrice e di una nuova vita ad un ritmo più pacato. «Niente mugugni, sapevo che era il momento, me lo chiedeva il mio fisico». Quello che Maura non sapeva era che la sua vita sarebbe stata ancora di corsa, per nulla in discesa: ad attenderla una gara contro il tempo e contro un avversario subdolo come la malattia. «A giugno 2007, durante un controllo di routine, mi diagnosticano un carcinoma maligno al seno». L'operazione un mese dopo, poi la radioterapia: ora Maura sta bene e pensa che il suo impegno in gare ed attività benefiche come la Avon Running di cui è stata molte volte vincitrice ed ora testimonial non sia stato un caso. «Voglio trasmettere alle donne l'importanza della prevenzione. Prima apprezzavo queste battaglie, ma inevitabilmente vedevo la malattia come cosa lontana da me. Ora vorrei dire a tutti di non tralasciare la cura di sé. Spesso le donne, per vergogna o per troppi impegni fra casa e lavoro, rimandano esami e controlli».
Nei momenti più bui lo sport le è sembrato un mondo vacuo e lontano o il suo spirito da atleta l'ha aiutata nella battaglia con la malattia?
«In effetti, se mi fossi ammalata mentre ancora gareggiavo forse non avrei più voluto saperne dello sport. Ma da ex atleta ho invece trasferito l'abitudine alla sofferenza nei casi della mia vita. Così nella malattia ho trovato la forza di reagire, di rialzarmi e di combattere il nuovo ostacolo come fosse l'obiettivo successivo da centrare. Ora vorrei creare un movimento e dei corsi al femminile nel mio Piemonte per aiutare le donne ammalate anche attraverso la pratica, pur dilettantistica, dello sport che è uno svago mentale ma fornisce anche un equilibrio psico-fisico per affrontare i problemi».
A vincere l'ultima maratona di New York è stata una mamma, Paula Radcliffe. Però le donne faticano di più nello sport: in alcune discipline devono scegliere fra carriera e maternità, in altre mancano leggi che le tutelino, che ne pensa?
«Che spesso è più difficile. Per nel nostro sport si può pensare di diventare mamme. Molte mie colleghe lo hanno fatto, sapendo che si trattava di prendersi una pausa di un anno e mezzo, ma che poi sarebbero tornate. Non è facile ma si può».
Com'è correre senza dover più vincere?
«Bellissimo. All'inizio il mio corpo reagiva male: era come se avesse bisogno di fare fatica per funzionare. Ora invece mi godo la corsa, scelgo i panorami che voglio per compagnia durante le mie "scampagnate". Per questo mi piacciono le gare come l'Avon running e quest'anno parteciperò sia a Bari sia a Milano, ma solo alla competizione a ritmo libero».
Lei ha vinto 8 maratone, e il bronzo europeo: eppure nel suo cuore non saranno state tutte lunghe uguali...
«La sorpresa è stata la prima, a Cesano Boscone nel 1994, la più sentita quella che mi è valsa il bronzo Europeo nel 1998, la più faticosa quella di Praga nel 2001, sempre sola e sotto la pioggia».
Che cosa significa per lei 2h 23' 47": l'ora di finire la pausa pranzo o il suo super longevo primato italiano di maratona?
«Eh, tutti e due? No, è il mio primato, stabilito a Vienna nel 2000.

E ogni volta che lo ricordo penso due cose: la prima, considerando come corro oggi, a quanta fatica per realizzarlo. La seconda, come mai nessuno lo abbia ancora battuto».
La conclusione è la medesima, lo sa?
«Si, che andavo davvero forte!».

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