Roma - Pochi giorni fa in un’intervista su queste pagine Vittorio Sgarbi ha denunciato che per mettere insieme la collezione di partenza del Maxxi - il Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma - sono stati adottati criteri di scelta pesantemente sbilanciati a favore di una certa avanguardia nichilista e sono state pagate per alcune opere d'arte somme incongrue rispetto alle quotazioni di mercato, oltre che al valore oggettivo delle opere.
Questo «shopping» sui mercati dell’arte contemporanea avveniva con soldi pubblici: inizialmente quelli della legge 237/99, stanziati a tranche di cinque miliardi di lire per anno, centesimo più centesimo meno, dal 1999 in poi, cifra che è andata lievitando con l’arrivo dell’euro e con nuove disposizioni legislative. Una larghissima parte di questo denaro serviva per acquistare opere per il Maxxi ed era gestita dal DARC, la Direzione generale per l’architettura e le arti contemporanee, sotto linee guida nel corso degli anni dettate sostanzialmente da Paolo Colombo e Pio Baldi. Per capirci di più, abbiamo rintracciato alcuni membri della commissione voluta nel 2001 dallo stesso Sgarbi per monitorare e discutere la logica con cui tali acquisti venivano effettuati.
«La nostra era una commissione solo consultiva - ci racconta Peter Glidewell - e spesso si finiva in minoranza. Per alcune opere sono stati pagati prezzi molto alti, ma questo può essere addebitato al mercato dell’arte contemporanea e al fatto che, se si ritiene imprescindibile avere una certa opera, la si può acquistare persino strapagandola. Piuttosto, era il metodo di questo shopping artistico a essere piuttosto approssimativo. Alcune opere venivano portate in esame per valutarne l’acquisto senza che fossero accompagnate da una documentazione sufficiente su cui prendere decisioni o quantomeno avviare una discussione non solo a livello artistico ma anche economico. Per l’opera di Gilbert&George, acquistata per una somma ragguardevole, ricordo di aver chiesto: se ne può discutere il prezzo, dal momento che è davvero troppo alto? Risposta: no, non si può. Ho chiesto ancora: ma chi vende quest'opera, quale galleria, quale collezionista? Risposta: non si sa. Ma come non si sa? Alla fine scoprii che era una società anonima del Liechtenstein».
Chissà chi c’era dietro. Comunque una fattura di una società anonima del Liechtenstein rilasciata a un Museo statale e pagata con soldi pubblici non è il massimo. «Altre volte - continua Glidewell - si finiva un po’ nel grottesco. Tutti potevano proporre opere per il Maxxi, dai soprintendenti alle gallerie. Accadde che un soprintendente, Filippo Trevisani, propose per l’acquisto un'installazione che l’artista Maurizio Mochetti aveva fatto per il palazzo Ducale di Sassuolo, proprietà del ministero. Il prezzo era esagerato. Si decise di non acquistarla. Beh, che successe allora? Alla riunione successiva lo stesso soprintendente ripresenta la medesima proposta a un prezzo di circa la metà del precedente. Non la si acquistò nemmeno la seconda volta, è chiaro. Ad ogni modo si spendevano somme gigantesche per acquistare opere non rare e già ampiamente presentate al pubblico mondiale, mentre erano a disposizione alcuni, secondo me, bravissimi artisti italiani a prezzi più che abbordabili, e certi erano persino disposti a regalare le proprie opere. Non è necessario essere amministratori asburgici per capire che il sistema che si stava usando per assemblare la collezione iniziale del Maxxi era piuttosto labile».
A complicare le cose, la legge che assegnava i fondi al Maxxi era un disastro. Sovente non si sapeva se i soldi sarebbero arrivati, e quando poi arrivavano tutti insieme c'era la paura che venissero tolti all'improvviso per chissà quale ragione. Questo generava frenesia di acquisti e non permetteva progetti a lunga scadenza. «Anche per tale ragione sarebbe stato importante spendere “bene” - ci dice un altro membro della commissione, Marco Di Capua -. Noi cercavamo di capire se ci fosse una sperequazione, magari dovuta al modaiolismo di certe scelte, ma pur essendo nominati direttamente dal Sottosegretario, cioè da Sgarbi, non avevamo potere di veto. Qualche volta si rimandava indietro le opere per una più serena valutazione dei prezzi d'acquisto, e ci si prendeva tempo per relativizzarli in base ai valori d'asta. Dal punto di vista artistico, posso dire che con tranquillità avrei fatto a meno di pezzi di Mario Airò, Laura Favaretto o Giuseppe Gabellone. Rimango fiero, invece, del fatto che al Maxxi siano finiti William Kentridge, Gerhard Richter, Domenico Gnoli».
Per Duccio Trombadori, altro membro della commissione consultiva, «l’orientamento degli acquisti per il Maxxi era abbastanza corrispondente alle scelte prevalenti in quasi tutti i musei d'arte del mondo. Scelte discutibili e conformistiche, secondo me, poiché escludono il valore proprio della pittura come genere, privilegiando nuove tecnologie, l’uso di fotografie, di video, di installazioni, ma d’altra parte la tendenza era questa, e lo è ancora oggi. Il Maxxi ha semplicemente una posizione corriva al gusto contemporaneo soggetto alle mode e al mercato. Più che di sinistra, è un’arte banale che banalizza l’avanguardia originaria degli anni Dieci e Venti. E il banale è sempre sopravvalutato. In commissione non si è mai discusso su una valutazione di mercato certificata. D’altra parte, come sarebbe possibile con l'arte contemporanea? Penso che i musei d'arte contemporanea sono un controsenso, non bisognerebbe spenderci un euro.
Si tratta di scommesse in cui il pubblico si espone a delle fluttuazioni che sono però tipiche di situazioni private. Dare ai gestori la libertà di muoversi e acquistare nella contemporaneità è come dargli l’autorizzazione di giocare in borsa coi soldi pubblici».(1. Continua)
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