«Milano sono io. Potrei parlare per giorni del mio rapporto con questa città. La mia Milano è nel teatro... ma io, oltre a essere un attore sono un uomo, e come uomo Milano non m'interessa più. Se n'è andata la gente per bene, quella con il cuore grande, disposta ad aiutare i senza tetto...». Chiediamo a Piero Mazzarella il motivo di parole così sconfortanti. «Le città - dice - si sono trasformate in metropoli, hanno acquistato gente, non valori. Emilio De Marchi, che amava follemente Milano, scriveva che quando il Milanin (la piccola Milano) diventò il Milanun (la grande Milano) molte cose scomparvero. Ma noi uomini della nebbia, uomini di questa strana città che non ci regala di certo la salute - i passeri di Milano nascono già con la broncopolmonite, sugli alberi non cinguettano, ma tossiscono - la amiamo ugualmente. Milano è come una scelta fra una bella donna e una donna intelligente e non ci sono dubbi su quale delle due scegliere».
Intervistare Mazzarella è come vederlo sul palcoscenico. Sussurra le parole, poi alza improvvisamente il tono della sua voce cavernosa per dare forza a un'idea, batte il pugno sul tavolo, si gira sulla sedia del camerino, scuote la testa. È un fluire continuo di riflessioni: su Joseph Roth (ha da poco terminato la recita de La leggenda del santo bevitore), su Samuel Beckett (altro autore amato), sul Vangelo, sui guitti, «i poveri, come i miei genitori». Non manca lironia: «Sono 35 anni che non mangio in trattoria. Sa perché? Per non vedere dietro le mie spalle le fotografie dei clienti e le loro frasi: Con lo stomaco riconoscente oppure Qui ho trovato l'oasi del colon». Nell'ascoltarlo ci si rende conto della sua passione per il teatro, una passione avvertita dal pubblico, sia quando recita in milanese o in italiano.
«Sono un popolano, figlio di povera gente, di due attori scavalca montagne... Una sera mia madre era in scena a Caresana, un piccolo paese vicino a Vercelli e dopo aver ringraziato il pubblico per gli applausi annunciò che le si erano rotte le acque e doveva partorire. Tre giorni dopo mi portarono a Milano, in una casa di ringhiera. Finita la scuola, d'estate, assieme a mio fratello andavo a fare teatro. Allora c'erano gli spettacoli teatrali non per ragazzi, ma con ragazzi protagonisti. Recitavamo: I figli di nessuno, Il Piccolo Lord, Gli spazzacamini... Vivevo a Porta Romana, in via Sannio, in un grande edificio chiamato il palasun: il gabinetto era in cortile in comune tra le famiglie. C'era miseria, fame».
Come ha iniziato a fare teatro dialettale? «Per combinazione. Mi era sposato a Genova con una diciassettenne allieva del teatro Carlo Felice. Abbiamo avuto due figli. A 23 anni mia moglie morì. Ho dovuto portare i bambini a Milano dai miei genitori. Erano gli anni del dopoguerra. Avevo bisogno di lavorare e mi sono messo a fare la rivista. Giravo l'Italia, da solo, triste. Come un pirla. L'estate, però, non si facevano le riviste. Come guadagnare? Mi recavo in Galleria Vittorio Emanuele, al Caffè delle pance vuote, frequentato dagli attori senza soldi in cerca di qualche opportunità. Una sera venne da me Edgar Biraghi, un generoso mecenate milanese, che mi offrì un posto nella compagnia dialettale milanese che stava recitando al Manzoni per mettere in scena uno spettacolo in dialetto milanese di Faele e Amurri, dal titolo Mogli in campagna, mariti in cuccagna. Debuttai con loro al Sant'Erasmo, il teatro di Maner Lualdi. Un delirio di applausi e di critica».
Mazzarella elenca le fortunate tappe professionali che gli hanno fatto meritare il titolo di erede di Edoardo Ferravilla. Ha recitato in dialetto milanese a Roma, Palermo, Napoli, Mosca, Berlino, Londra, New York. «Non dimentico una sera a Parigi. Si rappresentava, per la regia del grande Giorgio Strehler, El nost Milan, di Carlo Bertolazzi. Al secondo atto il pubblico salì sul palco per toccarci... E non erano milanesi! Ma oggi non ho più voglia di recitare in milanese. Tutto quello che dovevo fare l'ho fatto».
Cos'è per lei - chiediamo - la milanesità di cui si parla molto? «Pochi lo sanno. Non certo quella del milanese con il biglietto da visita con tre titoli che poi cancella nel consegnarlo, e neppure è un privilegio di nascita o un monopolio di casta. La milanesità è una medaglia che si acquista sul campo, dopo molto lavoro, molta fatica. Come ho amato Milano! La sua generosità, le voce della ringhiera, la solidarietà della povera gente... questa era Milano!» Molti, però, stanno ora abbandonando la città, vanno a vivere altrove. «Cosa vuol dire? Ognuno è libero di fare fa quel che vuole. Io continuo a vivere Milano».
Mazzarella, possiamo terminare con una domanda frivola? Le piace la cucina milanese? Il riso e prezzemolo, la cassuola, il risotto? «Molto. Ma lei sa come si fa il risotto alla milanese?» Con lo zafferano.
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