Meazza, Maspes, Loi Con questi miti lo sport cambiò la città

Quando la gente pregava per il piede del «Peppin», fermava i tram per vedere il pugile e faceva le volate in corso Sempione

Claudio De Carli

Un embolo alla gamba sinistra gli gelava il piede, un difetto di circolazione avevano diagnosticato i medici. Stette fermo un anno intero, non guarì mai. La gente al mattino prima di andare a lavoro, entrava in chiesa per pregare Dio che facesse sgelare il piede del Peppin che aveva giocato sia di qua che di là, era stato due volte campione del Mondo e a Milano aveva sempre contato più del sindaco e del cardinale messi assieme.
Era più di un mito, era il calcio e la vita. Se si impomatava con quella brillantina, tutti la compravano, se lo vedevano girare in bicicletta, tutti in bici, se prendeva il tram, tutti sul tram. Erano soldi, ma il suo primo appartamento lo compra perché Pozzo lo porta a Budapest, lui fa tre gol all’Ungheria e un ammiratore gli regala 20mila lire, un’esagerazione. Aveva vent’anni, tre mesi e gli occhi da pesce lesso. Era la sintesi del carattere degli italiani, nel massimo pericolo tirava fuori il meglio. Segna a Roma fra i fischi il giorno dell’esordio in Nazionale perché sostituisce l’idolo Sallustro infortunato, segna a Parigi il giorno della finale del ’38 con i francesi che ci insultano per novanta minuti, segna un rigore al Brasile mentre si regge i pantaloncini con l’elastico rotto. Dribblava l’intera difesa e poi chiamava fuori il portiere, tirava in porta piano perché tutti facessero a tempo a godere fino in fondo. Poi un giorno i milanesi gli hanno dedicato il loro campo di calcio che oggi si chiama Stadio Giuseppe Meazza.
Il Balilla faceva la pubblicità del dentifricio Diadermina, ma il grande business era ancora tutto da scoprire, ci pensa Giovanni Borghi, quello degli elettrodomestici Ignis, una lavatrice per ogni massaia. Il suo capolavoro lo fa all’alba degli anni ’60, chiede: «Chi è il migliore?». Gli presentano Antonio Maspes, lui lo veste di giallo e un giorno gli impone di fare un surplace record sulla magica pista del Vigorelli. C’è la televisione, Maspes rimane lì fermo sui pedali in equilibrio per una vita e dietro di lui c’è il cartello giallo con il marchio Ignis. Le telecamere portano nelle case di tutti le immagini di quell’exploit, sembra una grande scelta strategica del campione, in realtà non è altro che la più lunga sponsorizzazione non criptata della storia, e assolutamente gratuita. Una maglia di seta, il suono della campanella all’ultimo giro, sette titoli mondiali, girava a oltre 66 all’ora, faceva i duecento in meno di undici secondi, nella Milano che si ricostruiva lui era il miracolo.
Quando entra al Vigorelli per la prima volta ha quattordici anni, complice un addetto al velodromo che gli consente di sbirciare mentre girano le moto degli stayers. Quando batte lo svizzero Plattner nel ’55 e vince il suo primo titolo mondiale della velocità, gli chiedono quale sia il suo segreto: «Parto il più tardi possibile... ma sempre un attimo prima dell’avversario». La pista magica diventa la sua, alle riunioni si fa fatica a entrare, la gente arriva in bici, suda con lui e torna a casa sprintando sul rettilineo di corso Sempione. Il Maspes raggiunge tutti, li batte sul filo e si gira a guardarli in faccia. La signora Liliana è lì che pedala su una vecchia bici pitturata di giallo quando lo incontra per la prima volta: «Mi fa: dove va con quel cancello?». Quando a poco più di trent’anni decide di abbandonare le corse, lei andrà al santuario di Padova a ringraziare la Madonna per non dover più dividere la sua vita con l’altra, la pista.
In quegli anni in città c’è un triestino che tira di boxe e si vergogna. Quando combatte e danno il match in televisione i figli li vuole a letto. Una sera lo inquadrano mentre al termine del terzo round strizza l’occhio e punta la telecamera: il giorno dopo i quotidiani si chiedono a quale dama era destinato. Niente di piccante, il signor Loi ha solo mandato un segnale ai suoi due bambini che guardavano il match davanti allo schermo: papà ora fa sul serio, picchia, tutti a nanna. Ci mandava anche gli avversari, 126 incontri, solo 3 sconfitte, nessuna per ko e tutte riscattate in successive rivincite. La più impossibile contro il portoricano Carlos Ortiz che lo aveva battuto a San Francisco con un verdetto discusso. Lo affronta a San Siro una sera di settembre del 1960, cintura dei welter junior in palio, 61mila persone, un muro, organizzano la bella, 70mila persone, rivince. Quella sera scrissero che fermava anche i tram perché un gruppo di tifosi in ritardo che si sta recando a San Siro, blocca il convoglio su cui viaggiano per seguire il match che sta iniziando in televisione. Scese anche l’autista.

Solo lo stadio più grande di Milano poteva contenere quell’oceano di tifosi che Duilio Loi spostava e nessun campione dello sport ha saputo coinvolgere così tanti milanesi come lui.

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