Il medico che si traveste da zio per guarire i bambini autistici

Michele Zappella, neuropsichiatra infantile, è nipote di Mario Tobino, il primario-scrittore del manicomio di Maggiano: "Lo accompagnai nell’ultimo viaggio". Da lui ha imparato che la malattia mentale richiede smorfie, sorrisi e carezze

Il medico che si traveste da zio 
per guarire i bambini autistici

Lo zio Michele ride, scherza, distribuisce complimenti e carezze, contrae il viso in smorfie da clown, talvolta urla, spesso si fa prendere per il naso, e non in senso metaforico. Ha qualche concorrente nel Regno Unito, in Svezia, negli Stati Uniti. In Italia no, è riconosciuto come il numero uno. Lo zio Michele possiede una sensibilità rabdomantica: riesce ad aprire casseforti di cui nessuno conosce la combinazione. Forzieri speciali che si muovono, respirano e interagiscono con lui, perché sono fatti di carne. Bambini autistici. «Fortezze vuote», per il famoso psicologo Bruno Bettelheim. Ma non per il professor Michele Zappella, neuropsichiatra infantile e pediatra, specializzato in malattie nervose e mentali. In 35 anni che si occupa di loro ne ha curati più di 10.000. Molti sono migliorati, alcuni guariti.
Iniziò nel reparto da lui stesso fondato all’ospedale di Siena, un ex convento. Nonostante il primario abbia un aspetto badiale, là dentro, per le antiche scale, non s’è mai sentito un monaco o un missionario, l’officiante di una religione laica, «l’ho sempre inteso solo come un dovere civile verso gli altri e verso il mio Paese». Suo zio Mario - perché anche lo zio Michele ha avuto un parente che ha contato molto nella propria formazione - visse per 40 anni un’esperienza analoga nel decrepito manicomio di Maggiano (Lucca) e ci ricavò il suo romanzo più noto, Per le antiche scale, appunto. Quando faccio notare a Zappella che assomiglia in modo impressionante a lui, allo psichiatra-scrittore Mario Tobino, la sua bocca si allarga in un’espressione di stupefatta malinconia: «Bisogna farlo bene, fino in fondo, il nipote di uno zio così».
Il neuropsichiatra infantile è figlio di Clotilde, detta Tilde, la sorella maggiore di Tobino. L’11 dicembre 1991 ebbe il privilegio d’accompagnare l’illustre zio in quello che sarebbe stato l’ultimo viaggio, ad Agrigento, dove gli conferivano il premio Luigi Pirandello: «Ma a lui, più che il riconoscimento, interessava il mare. Guardava al di là del Mediterraneo, come se sognasse di tornare in quel deserto della Libia al quale quarant’anni prima aveva dedicato l’omonimo romanzo che rievoca la sua odissea di ufficiale medico durante la seconda guerra mondiale. Lo zio ne avrebbe compiuti 81, portati malissimo, di lì a pochi giorni. Ebbi la sensazione che quel premio fosse una sfida alla morte. Durante la cerimonia raccontò ai giovani la sua vita. Alla sera volle stare con loro al ristorante fin dopo la mezzanotte. Mangiò, bevve, scherzò anche pesantemente con le donne come un ventenne. Il mattino seguente fu schiantato dall’ennesimo infarto. Una morte in palcoscenico, come Molière».
Il professor Zappella, in pensione da un anno e mezzo, ha festeggiato i 72 a marzo e oggi continua a curare i suoi piccoli pazienti per le nuove scale dell’ospedale della Versilia, un avveniristico complesso sanitario che sorge a Lido di Camaiore, a pochi chilometri dal Piazzone della sua Viareggio, su cui si apriva la finestra della camera dello zio Mario. È consulente dell’unità operativa di neuropsichiatria infantile diretta dal dottor Giorgio Pini. Ma visita anche a Siena, dove abita, a Roma e a Corigliano Calabro, un omaggio alla moglie che è nata lì ma soprattutto un favore alle famiglie disagiate del Sud, perché il metodo di cura messo a punto dal professor Zappella comporta sedute di apprendimento e richiede l’assidua partecipazione di mamme e papà.
Il luminare è presidente del comitato scientifico della Società italiana della sindrome di Rett e fino a cinque anni fa presiedeva la Società italiana della sindrome di Tourette, due malattie neurologiche di eccezionale rarità e gravità. La prima colpisce solo le bambine dopo il primo anno di vita e si manifesta con mutismo, epilessia, atrofie muscolari, difficoltà di deambulazione e coazione ad attività ripetitive, simili al lavaggio delle mani; la seconda con atteggiamenti stravaganti, tic e un’irrefrenabile pulsione a pronunciare sconcezze. Tutte sfide, per zio Michele.
Che cos’è l’autismo?
«Una malattia con spiccata componente genetica che compare nei primi anni di vita con tre caratteristiche: difficoltà grave nello sviluppo delle relazioni sociali; problemi di comunicazione; comportamenti ripetitivi, come dondolare il corpo avanti e indietro, ed ecolalia, la pronuncia ossessiva di parole udite in precedenza».
Essere il nipote dello psichiatra Tobino l’ha aiutata nel suo lavoro?
«Mio zio mi ha insegnato l’ascolto partecipato. Le malate di mente gli correvano intorno e lui s’immedesimava nel loro delirio: “Lei è una contessa... Prenda la torcia, andiamo! Il cavallo ci aspetta”. Ho capito che con i bambini autistici serviva la stessa capacità di avvicinamento. Loro non ti guardano, scappano nell’angolo più lontano della stanza. Allora la prima volta che li incontro vado a prenderli in sala d’attesa e mi congratulo per il loro aspetto. Quando comincia una visita deve iniziare una relazione positiva. La reciprocità fra adulto e bambino è la chiave di tutto».
Quanti sono gli autistici in Italia?
«Fino agli Anni 70 si riteneva che fossero 4 ogni 10.000 abitanti, quindi lo 0,04% della popolazione. Oggi si sa che questa percentuale è dello 0,6%. Quindi stiamo parlando di un bambino ogni 160 nati».
Da 0,04 a 0,6 è un incremento allarmante, il 1400% in più. Come si spiega?
«Sono migliorate le tecniche diagnostiche. Ma soprattutto viviamo in una società che punta tutto sulla relazione. Un secolo fa l’impiegato autistico passava inosservato: gli bastavano pennino, calamaio e una discreta calligrafia. Ma oggi? Deve usare il computer, padroneggiare Internet, dialogare col pubblico. Fra il 1961 e il 1965 ho lavorato al Fountain hospital per cerebropatici a Londra e poi in neurologia infantile al Children’s hospital di Washington: conoscevamo poco l’autismo, lo giudicavamo un handicap rarissimo. Del resto la definizione clinica era stata data solo vent’anni prima a Baltimora dall’austriaco Leo Kanner, che lo aveva individuato su 11 bambini, nove maschi e due femmine. La medesima proporzione che riscontriamo ai nostri giorni».
Negli Stati Uniti si parla dell’autismo come di un’epidemia.
«Si è data la colpa alle vaccinazioni, a causa della presenza del mercurio nei preparati. Ma nel 2001 le case farmaceutiche hanno tolto dai vaccini il thimerosal, tiosalicilato di mercurio, e le diagnosi sono aumentate ugualmente. In un distretto del Giappone per un certo periodo le vaccinazioni sono state sospese e anche lì i casi sono cresciuti. Credo che dipenda da una banale concomitanza: l’autismo si manifesta nell’età in cui si eseguono le vaccinazioni».
Perché ha deciso di occuparsi proprio di questa patologia?
«Nel 1973 mi fu portato in reparto Pino, 8 anni. Era un caso difficile, un gigante cerebrale, con un capoccione enorme. Disgrazia volle che quel giorno i dirigenti amministrativi venissero a farmi perdere tempo per discutere di problemi logistici. Quando uscii dal mio studio, Pino non c’era più: la mamma, stufa d’aspettare, lo aveva riportato a casa. Il giorno dopo andai io a cercarli. Abitavano a Scrofiano, non lontano da Siena, in un modesto alloggio. Pino toccava quasi il soffitto con la testa. Non riuscii a curarlo».
Le famiglie dei piccoli malati spesso si colpevolizzano.
«È la conseguenza di un passato molto brutto, quando la psicoanalisi pensava che l’autismo fosse il frutto di difficoltà nel rapporto madre-figlio, anziché di alterazioni dell’amigdala, del cervelletto e dell’ippocampo. Mi hanno portato una bimba con la sindrome di Rett che per nove anni, dico nove anni, è stata sottoposta inutilmente a cinque sedute settimanali dallo psicoanalista. Di errori i seguaci di Freud ne hanno fatti tanti».
La maggior parte delle coppie che hanno un figlio autistico nel giro di pochi anni si separano.
«È vero. Quasi sempre è il marito che se ne va, lasciando la moglie da sola ad affrontare la situazione».
Un autistico può diventare pericoloso per sé e per gli altri?
«Nella maggioranza dei casi no. Però alcuni sono molto ritardati, non capiscono le regole, hanno bisogno d’essere accuditi. È vero che la scuola pubblica assegna a ciascuno di loro un’insegnante di sostegno e spesso un’assistente, tuttavia la pretesa di integrare tutti appartiene al radicalismo estremo. Vedo ragazzi d’ogni parte d’Italia: cominciano a star bene quando le scuole chiudono e vanno al mare. Bisogna sempre aver presente che si tratta di persone molto sensibili, più permeabili di altre all’aggressività scatenata da patologie sovrapposte, come la depressione, l’agitazione motoria, il disturbo maniacale. Non riuscivo a curare un bimbo di Prato in perenne agitazione. Inserito in un centro speciale, non ha più avuto bisogno di medicine».
E una volta terminata la scuola dell’obbligo?
«Subentra il vuoto. Gravitano sulla famiglia o sui centri diurni. Quelli più intelligenti, i cosiddetti asperger, possono trovare collocazioni terapeutiche mirate. Seguo un trentenne che è un fuoriclasse della chimica, s’è laureato con ottimi voti in Abruzzo. Lavorava in una università del Centro Italia, ma, vinto dalla depressione, ha tentato il suicidio. L’hanno salvato. Ora ha cominciato un dottorato di ricerca nello stesso ateneo e va meglio».
Come si cura l’autismo?
«I ritardati e i ripetitivi, anche se parlano, hanno bisogno d’essere organizzati mediante l’uso delle immagini. Sapere come vanno fatte determinate cose li tranquillizza».
Sono uomini d’ordine.
«Super ordine. Per mandare in crisi un mio paziente che lavora in un vivaio di piante è bastato che il proprietario della serra gli cambiasse mansione dalla mattina al pomeriggio».
E i meno gravi come si curano?
«Bisogna fornirgli i mattoni per sviluppare le relazioni. Perché non conoscono le modalità di approccio, non sanno chiedere al compagno di banco: “Mi presti la gomma?”. Quindi per loro invento scenette teatrali in cui ci scambiamo i ruoli. Ciao Giovanni, bella giornata, oggi. “Ciao zio Michele, bella giornata, oggi”. Stesso percorso per genitori, insegnanti e terapisti».
La leggenda di zio Michele quando è nata?
«Non me lo ricordo nemmeno più. Incontravo parecchie famiglie di Napoli e mi preoccupavo che i piccoli non vedessero in me il medico in camice bianco che fa le punture, che mette paura. Qualche genitore diceva al figlio: “Siamo venuti a trovare zi’ Michele”. Ha avuto successo».
Dove trova tutta questa pazienza?
«Stare con un autistico per un’ora è diverso dallo starci tutto il giorno. La sera, anche adesso che sono anziano, quando finisco le visite mi sento benissimo, non sono mai stanco. Ho un forte ritorno affettivo da questi bambini che non vorrebbero andarsene dal mio studio. Mi mantengono giovane. Teo, un giovanotto della Lucania che oggi lavora in un ristorante, mi fu portato negli Anni 80 da padre, madre e nonno. Dopo poche sedute, parlava. Dissi loro: “Teo è guarito”. Se lei avesse visto la felicità di quel nonno... Molto tempo dopo vado a un convegno in Campania. Al termine dei lavori mi ritrovo quest’uomo sulla porta che mi aspetta con ceste piene di ogni bendidio. Impagabile».
Dall’autismo si guarisce, dunque.
«L’autismo è plurale, sono diverse malattie in una. Nel 5-7% dei casi è reversibile, per esempio quando nasce da deprivazioni ambientali, vedi il caso dei piccoli rumeni segregati negli orfanotrofi di Ceausescu».
Esistono davvero geni come l’autistico Raymond interpretato vent’anni fa da Dustin Hoffman nel film Rain man?
«Certamente. Il savant ha queste capacità straordinarie e misteriose, soprattutto di tipo matematico. Io gli chiedo: che giorno era il 7 maggio 1998? Lui risponde di getto: giovedì. Vado a controllare ed è vero. C’è una teoria che attribuisce l’autismo a un’anomalia nelle connessioni cerebrali. Se è vera, devono esistere delle iperconnessioni a noi ignote».
Ho letto che lei si occupa anche di bullismo. Che c’entra con l’autismo?
«C’entra, purtroppo. Un giorno mi arriva in stato catatonico un autistico grave di 17 anni. I genitori mi raccontano che il fratello di 14, vittima dei compagni a scuola, è stato sbattuto contro una cancellata fino a fratturargli la clavicola. L’episodio violento aveva sovvertito per qualche giorno l’ordine familiare e il ragazzo più grande, sentitosi perso, era finito al pronto soccorso, dove l’avevano imbottito di neurolettici. M’è sembrata un’ingiustizia intollerabile».
E che cosa ha fatto?
«Ho cominciato a documentarmi, scoprendo che il bullismo colpisce sistematicamente autistici, iperattivi, neri, intelligenti e obesi. E come reagisce la scuola? Con risposte inadeguate. Ho letto di una studentessa di 16 anni spogliata nuda perché considerata secchiona. Sa qual è stato il castigo per i bulli? Li hanno mandati a pulire i bagni. Che cosa devono pensare i bidelli? Che il loro è un lavoro disonorevole? Lo trovo spaventoso. Alla vittima non è stata offerta alcuna protezione».
Lei che propone?
«Non occorre essere geni: basta andare a vedere che cosa s’è fatto in Scandinavia o leggersi il programma di prevenzione del bullismo compilato dalla dottoressa Rachel Vreeman, ricercatrice della scuola di medicina dell’Indiana University. Negli Usa ben 35 Stati su 50 si sono dotati di un’apposita legislazione per arginare questo deprecabile fenomeno».
In Italia non si possono sospendere i violenti dalle lezioni in ossequio al diritto allo studio.
«In Italia si fa una gran confusione. Il bullismo induce disturbi depressivi, istinti suicidari, sintomi psicotici. Fior di statistiche attestano che chi è bullo da adolescente spesso diventa inquilino di prigioni da adulto. La censura contro questi individui dovrebbe essere rapidissima, la sanzione severissima.

Ma nel 1998, quand’era ministro della Pubblica istruzione Luigi Berlinguer, fu varato uno Statuto delle studentesse e degli studenti che offre tali e tante garanzie da rendere di fatto impossibile l’immediata punizione dei colpevoli. Una roba scandalosa».
(419. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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