«Il medico di corte» merita un posto d’onore in biblioteca per due buoni motivi, primo perché è un Iperborea (che contende ad Adelphi il primato delle copertine più belle), secondo perché è un signor libro. In realtà non l’avrei preso se non fosse uno dei cult-book di Massimo D’Alema. Qualche anno fa il futuro ministro degli Esteri lo additò all’interesse popolare assieme all’«Arte della guerra» di Sun Tzu. Che non ho comprato perché da mio nonno Mario ho ereditato i due monumentali volumi «Della guerra» di Carl Phillip Gottlieb von Clausewitz, e come letteratura bellico-strategica i miei gusti erano già appagati: «La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi», scrisse tra l’altro il generale prussiano, e D’Alema lo sa bene. Mi intrigava di più «Il medico di corte» dello svedese Enquist, presentato come apologo dei guai dell’Ulivo. Johann Friedrich Struensee viene assunto dal giovanissimo re di Danimarca Cristiano VII prima come medico personale poi come primo ministro. In quattro anni di governo il dottor Struensee vara una serie di riforme ispirate alle idee illuministe che aumentano le libertà del popolo a scapito del potere dei cacicchi di corte: il che equivale a infilare la testa nel cappio. Il vero errore, quello che davvero gli costa il posto e la vita, è tuttavia l’amore per la regina quindicenne: in lei la forza della passione si trasforma in sottile abilità nella gestione del potere. Patatrac. Al «Medico di corte» ha fruttato più la pubblicità dalemiana che la quantità di premi letterari vinti in tutto il mondo.
Ma il paragone con l’Ulivo proprio non ci sta: sarebbe l’ex premier il leader del centrosinistra fatto fuori per alto tradimento dopo aver introdotto una raffica di riforme liberali? Ma soprattutto: per quale gran dama avrebbe perso la testa? Rosi Bindi?
Per Olov Enquist
Il medico di corte
Iperborea, terza edizione 2003
(stefano.filippi@ilgiornale.it)
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