Mediterraneo, un mare di vino

A Palazzo Pitti di Firenze una rassegna percorre seimila anni di arte, scienza e mitologia. Dalle prime coltivazioni della vite al dio Dioniso e alla Roma imperiale. Preziosi manufatti e testimonianze attestano commerci con l'Asia dal 4000 a.C.

Mediterraneo, un mare di vino

Temetum: era questo il nome che i romani davano al vino forte, puro, inebriante, proibito alle donne. Un «veleno» permesso solo ai maschi, che potevano addirittura uccidere la moglie, cioè la matrona, se la trovavano ad assaggiarne un bicchiere. Succedeva ai tempi di Roma antica, quando il vino aveva già una lunga e complessa storia. Una storia che coincide con quella dell’umanità e ne tocca tutti gli aspetti. Oggi è possibile conoscerla attraverso antichi reperti, brocche del VI millennio a.C., iscrizioni su pietra e terracotta, affreschi romani e pompeiani, statue, bassorilievi, vasi dipinti con illuminanti iconografie. E ancora, attraverso testimonianze di poeti e scrittori greci e latini, tracce archeologiche di arredi romani ed etruschi, antiche cantine con botti, residui di vite carbonizzati da cui viene estratto il DNA per capire da dove arrivarono e quali Paesi attraversarono.
A raccontarla attraverso testimonianze e una settantina di preziosi manufatti è un’insolita mostra, «Vinum nostrum. Arte, scienza e miti del vino nelle civiltà del Mediterraneo antico» aperta al Museo degli Argenti a Palazzo Pitti di Firenze sino al 30 aprile 2011 (catalogo Giunti). Ideata da Paolo Galluzzi, curata da Giovanni di Pasquale e altri studiosi, affronta in maniera rigorosa un tema vasto, prescindendo da ogni folklore e ripercorrendo un viaggio in cui scienza e magia si intrecciano per 2000 anni, sino al I secolo d.C.
A bere i primi bicchieri di vino furono alcuni contadini dell’Anatolia, che piantarono la vite sul monte Ararat, dove, secondo la Bibbia, Noè aveva allestito una vigna. Lo tenevano in vasi di argilla come quel recipiente del VI millennio a.C. del Georgian National Museum di Tbilisi, uno dei più antichi in assoluto. Comincia dal quarto millennio a.C. un intenso commercio di vino in Asia, documentato da missive tra i vari re scritte su tavolette d’argilla.
Il potere del vino, salutare, ma pericoloso, affascinò da allora tutti i popoli del Mediterraneo, a cominciare da Egizi e Greci. Stele funerarie egizie raccontano, attraverso la pittura, come al defunto venissero offerti, accanto a pane, carne e cipolle, grandi anfore vinarie. C’era chi, come lo scriba Senenra, volle immortalate sulle pareti della propria tomba i coppieri che aspiravano il vino dalle anfore con appositi sifoni. Ma ad impazzire per il sacro nettare furono soprattutto i Greci che non solo produssero vini pregiati, diffondendoli per tutta l’area mediterranea, ma introdussero anche la consuetudine dei simposi, banchetti aristocratici a base di grandi bevute, ottime per arrivare alla verità, come sosteneva Platone. E soprattutto crearono il mitico e contraddittorio Dioniso, dio del vino, protettore della vite, errante nei boschi ebbro di piacere, con cortei di ninfe e satiri. Trasformato in Bacco, fu adottato da tutti gli artisti, antichi e moderni. I Greci del IV-III secolo a.C. lo rappresentavano sulle coppe a figure nere, con il suo profilo intrigante, insieme alla madre Semele, tra vino, tralci e grappoli d’uva, oppure in preda a orgasmi, allucinazioni, euforia, follia. Lo scolpivano nei bassorilievi mentre, giovane o anziano, beveva vino.
Il mito di Dioniso e dei suoi folli satiri passa nella Magna Grecia e in città campane come Pompei ed Ercolano, dove fioriscono officine artigiane da cui escono opere raffinate con iconografie legate a scene dionisiache, e dove si coltiva in modo egregio la vite (Vitis ellenica, Vitis oleagina, Columbina purpurea) e si producono vini speciali. Queste terre, devastate dall’eruzione del 79 d.C., restituiscono ancora oggi tracce numerose e importanti della coltivazione della vite, produzione, conservazione e commercio del vino.
E Roma? Roma idolatrava il vino, il suo sapore, odore, invecchiamento. Lo spargeva esaltandosi nei banchetti e nei baccanali. Ma, da Romolo in poi, a gustarlo erano solo gli uomini, alle donne era proibito: dovevano accontentarsi dei dulcia, bevande più leggere. Perché? Perché, come spiega Dionigi di Alicarnasso, poteva far allontanare le matronae dalla virtù e trasformarle in licenziose ubriacone e facili adultere. Proprio come quella bellissima Vecchia ubriaca, in marmo, del II secolo a.C., di Mirone di Tebe. Egnazio Mecennio, a esempio, aveva ucciso la moglie a colpi di bastone perché l’aveva sorpresa a bere vino. E tutti l’avevano approvato, asseriscono gli storici Valerio Massimo e Plinio il Vecchio.
I mariti temevano talmente la libidine delle mogli che era in gran voga lo ius osculi, il diritto del bacio: i parenti di future mogli dovevano baciarle sulla bocca per sapere se odoravano di vino. In tal caso, niente matrimonio, ma morte, magari per inedia.

Naturalmente si poteva aggirare l’ostacolo: Agrippina, a esempio, racconta Svetonio, con quel bacio sulla bocca aveva sedotto lo zio Claudio, fratello del padre Germanico, che si innamorò di lei. Bacio trappola, insomma. Ma per le donne, con la fine della repubblica arrivarono tempi nuovi: trucco, divorzio, terme e vino, ubriacatura compresa.
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