La memoria italiana che sta sparendo

Monumenti, cimiteri, cippi ai caduti: gran parte delle opere edificate è stata distrutta o stravolta. Magari per far spazio alle strade costruite dai cinesi

La memoria italiana che sta sparendo

Giovanni Masini

da Adigrat

All'ombra di un grande sicomoro, anno dopo anno il tempo cancella le tracce della storia. Da una roccia ricoperta di licheni affiorano poche parole appena leggibili, incise sotto la fiamma dei granatieri: «Comando prima compagnia». Tra qualche anno, probabilmente, nessuno sarà più in grado di distinguerle.

Nel giardino di uno dei lodge per stranieri più lussuosi del Tigrai, nell'Etiopia settentrionale, oltre i bungalow e il prato all'inglese ben curato resistono ancora le ultime tracce della presenza italiana in Abissinia. Una storia che risale ormai a quasi 80 anni fa e di cui si sta perdendo, inesorabilmente, il ricordo. Là dove da qualche tempo alcuni imprenditori coraggiosi hanno eretto, con spirito pionieristico, le prime strutture turistiche, durante il periodo fascista sono vissuti e sono morti decine di migliaia di connazionali.

Un giovane inserviente del resort, parlando inglese con un forte accento americano, accompagna i pochi viaggiatori interessati a quell'antica storia in un breve tour della proprietà. Dietro le cucine resiste la tomba, mezza diroccata, del soldato Pietro Pittorru, morto ventenne il 23 novembre del 1935. Poco oltre, la lapide di un caduto delle Camicie nere (si legge solo il cognome, «Diamanti», 2a Compagnia Ottavo Battaglione di complemento) è gettata sull'erba e ricoperta di scritte. La nostra guida spiega che quando l'anno scorso i cinesi hanno costruito la nuova strada asfaltata, l'hanno estirpata dalla sua collocazione precedente e gettata senza tante cerimonie nel prato.

Fra il 1935, quando Mussolini invase l'impero di Hailé Selassié, e il 1939, quando i focolai di resistenza principale furono domati, secondo gli archivi dell'Esercito i caduti furono 6.120. Nei due anni successivi, quando l'impero fatale voluto dal Duce si sciolse come neve al sole assediato dagli inglesi, i morti italiani furono 5.211 e i dispersi 15.371, oltre a 50mila indigeni morti o dispersi. Un'avventura durata appena sei anni e che costò migliaia di vite sia all'Italia sia ai Paesi occupati.

Finché Roma fu presente in Etiopia, i resti dei caduti trovarono sistemazione nei cimiteri monumentali delle principali città e nelle altre località teatro dei più importanti fatti d'armi o nei pressi dei presidi militari. Dopo la sconfitta nella Seconda Guerra mondiale, gli italiani dovettero attendere vent'anni perché il governo di Addis Abeba concedesse loro di ripristinare il decoro delle sepolture.

A oggi, soprattutto nelle regioni al confine con l'Eritrea, non è raro imbattersi in alcune testimonianze di quegli anni, che lentamente soccombono allo scorrere del tempo.

Un tempo tutta la zona compresa fra Scirè e Macallè era punteggiata di cimiteri e tombe italiane. Piccoli sepolcreti dispersi fra le rocce rosse di quelle montagne, o addirittura tombe individuali erette in fretta sul luogo dove un moribondo aveva esalato l'ultimo respiro. Fra gli anni Settanta e gli Ottanta la maggior parte dei caduti è stata trasportata in due o tre strutture principali, edificate d'intesa con le autorità consolari. Uno dei più grandi di questi cimiteri è quello di Adigrat. A meno di 40 chilometri dalla frontiera eritrea, Adigrat è una cittadina polverosa adagiata in una conca circondata dalle montagne tigrine, note come ambe. Perso fra i campi alla periferia dell'abitato sta un cimitero militare italiano, che raccoglie i resti di circa 700 caduti, fra militari e civili. I rari visitatori vengono accolti da un guardiano che con la moglie, tre figli e un cane abita in un angolo del camposanto. Unico vivo fra tanti morti, accompagna i viaggiatori per un giro fra le tombe. Il cimitero è in uno stato di composto abbandono. Le lapidi - su molte delle quali campeggia la scritta «caduto ignoto» - sono in ordine ma l'altare è spezzato e mancano sia i fiori sia la Bandiera.

Mantenere il decoro dei sepolcreti all'estero, e specialmente nell'Africa nera, non è semplice, così come non è facile proseguire, a tanti anni di distanza, nella ricerca e nell'identificazione dei dispersi. Dal 1919, tuttavia, presso il ministero della Difesa esiste un Commissariato Generale per le onoranze ai caduti, che si dedica a cercare, rimpatriare e tumulare i resti dei militari caduti in tutte le guerre, dai conflitti pre-unitari alle missioni di pace dei giorni nostri.

«In Etiopia e in Eritrea ben 2.376 spoglie furono identificate e rimpatriate nei Comuni d'origine in Italia, secondo le richieste dei familiari - spiega il Tenente Colonnello Nicola Nannola, del Commissariato Generale -. Ma la vastità del settore, oltre alle condizioni delle sepolture e all'assenza di elementi di riconoscimento, non consentirono di identificarne molti».

Fra i tanti dispersi senza volto, peraltro, non ci sono solo i caduti durante le guerre mussoliniane ma anche le vittime di un conflitto ancora più antico e se possibile ancora più remoto nella memoria collettiva del Paese: quello del 1895-1896. L'Italia, allora governata dal garibaldino siciliano Francesco Crispi, tentò di invadere l'Abissinia da Nord, muovendo dalla neonata colonia eritrea. Gli errori nella pianificazione della campagna militare furono vistosi, la sconfitta talmente cocente da trasformarsi in un'umiliazione nazionale: il 1° marzo 1896 nella battaglia di Adua le nostre truppe furono spazzate via dagli eserciti dei ras etiopi, lasciando sul terreno quasi seimila morti fra italiani e ascari. Il Regno d'Italia, che mirava a fondare un impero africano per assorbire la sovrabbondanza di manodopera interna, oltre che per ragioni di prestigio, perse la guerra per mano di un'armata che a torto si considerava antiquata e poco combattiva. Per quarant'anni quella disfatta rappresentò una vera e propria ossessione, che il Duce fece di tutto per riscattare.

Oggi quasi nessuno si ricorda più di quei fatti, che pure hanno lasciato tante «via Adua» in ogni angolo dello Stivale. Al centro della città etiope resiste solo una croce in pietra, circondata da un minuscolo sagrato chiuso da un cancelletto. Nel fazzoletto di terra in cui sorge il cippo, qualcuno ha piantato del granturco che, nella stagione delle piogge, cresce rigoglioso.

Un ristorante di cibo tradizionale sfrutta la recinzione esterna per affiggere cartelloni di plastica che mostrano foto sbiadite di piatti tipici dall'aspetto assai poco invitante. Sul monumento si legge ancora una scritta nera che suona come un monito: «Ai caduti, Adua 1896 non dobbiamo dimenticarti».

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