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Un messaggio forte. Anche per Bruxelles

Un messaggio  forte. Anche per Bruxelles

Fa sorridere, forse non di più, ricevere, nelle ultime ore del denso programma della visita di Silvio Berlusconi in America, gli echi di «proteste» dal micromondo elettorale italiano. In particolare quella secondo cui la trasmissione in diretta del discorso del presidente del Consiglio alle Camere riunite del Campidoglio di Washington avrebbe in qualche modo violato la par condicio e dovrebbe essere spuntata, minuto per minuto, dal calendarietto propagandistico. A Roma qualcuno forse ci si arrabbierà. Di qui si può solo scrollare il capo di fronte all’evidente assurdità dell’accostamento. C’è stato prima un incontro fra i leader di due importanti Paesi dell’Occidente per un confronto di strategie in un momento di tensioni e di pericoli internazionali senza precedenti dopo la fine della Guerra Fredda.
L’Iran, la Palestina, l’Irak, l’Afghanistan, il fondamentalismo islamico, Israele, i problemi energetici che riemergono: di che cos’altro dovevano parlare George Bush e Silvio Berlusconi? Poche ore dopo che il primo partisse per la missione forse più innovatrice e ambiziosa del suo mandato presidenziale: verso l’Afghanistan che torna a ribollire, il Pakistan che è sempre una polveriera sotto precario controllo e l’India, che potrebbe giocare un ruolo fondamentale e contribuire, direttamente o indirettamente, ad affrontare tutte queste crisi. E il pubblico televisivo italiano avrebbe dovuto ignorarlo, solo perché ai colloqui a quattr’occhi è seguita una cerimonia in cui, prima ancora che consegnare una «medaglia» a Berlusconi, si è reso omaggio, nell’edificio simbolo della nazione americana, all’Italia. È sconcertante la distorsione del senso delle proporzioni attraverso un oceano.
Tanto più che in Campidoglio il primo ministro non ha parlato da governo a governo, da formula a formula politica, bensì da rappresentante dell’Italia, tutta, agli Stati Uniti, tutti. La parola elezioni non è stata neppure pronunciata né da lui né da chi gli ha dato il benvenuto nel tempio della democrazia americana. Niente della minuta cucina politica quotidiana è stato menzionato. Ci sono state, nel discorso di Berlusconi, formule storicamente radicate come il ringraziamento all’America per il suo ruolo storico nel XX secolo nel proteggere l’Europa dai totalitarismi e dalle aggressioni e riconsegnarcela alla fine democratica e unita. E ci sono stati accenni più concreti, ma sempre in una visione storica, dei pericoli attuali.
Ci sono stati consigli, di amico fedele che non dice sempre signorsì. In particolare circa la visione, «filosofica» se si vuole, del conflitto numero uno, quello da cui nascono le «campagne» più o meno fortunate in corso e quelle ipotetiche nel futuro. Berlusconi ha precisato che non si tratta di una «guerra fra civiltà», con l’Occidente tutto da una parte e l’Islam tutto dall’altra, bensì dell’estensione al nostro mondo di quella che è nata decenni orsono come guerra civile all’interno dell’Islam e che tale è rimasta, come ci mostrano le immagini disperanti che continuano a giungerci non solo da Bagdad, ma in questi giorni soprattutto da Bagdad. Capire in che conflitto si è impegnati, definirne i limiti e le caratteristiche è un contributo essenziale non solo per la vittoria ma anche per la pace, sola corona di ogni vittoria.
Poi Berlusconi ha affrontato il problema dei rapporti transatlantici, senza fingere che una crisi non ci sia, senza minimizzare e senza aizzare il risentimento di molti americani nei confronti dell’Europa. Il principale monito è stato, è vero, per quest’ultima: è giusto cercare di «definirsi», ma è sbagliato farlo principalmente in contrasto con l’America. Non solo perché è alleata, non solo perché ne condividiamo i valori fondamentali della democrazia e della libertà, ma perché abbiamo altre possibilità, altri campi e altri doveri per riaffermarci.
Nessuna di queste frasi può essere configurata neppure di lontano come campagna elettorale. Nessuna di queste due visioni principali viene contestata, per lo meno apertamente, nei programmi e nei discorsi dei leader del centrosinistra; dato e non concesso che siano i veri leader e che esprimano le proprie vere convinzioni e programmi.

Nessuno si è accorto, invece, che di questi consigli l’America, e Bush in particolare, ne hanno in questo momento bisogno quanto noi o forse di più. Non possiamo fornire che parole. Dopo aver fatto il nostro dovere, anche militare come forza di pace, dobbiamo e possiamo adesso rendere pubblico il nostro contributo di suggerimenti e di idee.

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