Metamorfosi di Pontida da carnevalata a capitale della politica

In principio erano così pochi che ironizzare era quasi d’obbligo. Le feste dell’Unità poi la facevano ancora da padrone, per voti e per numero di addetti alle salamelle. Il Carroccio costretto a prendere in prestito oltre che l’idea di una festa popolare anche i gazebo, beh sì, faceva ridere. Tanto più per quel contorno maccheronico di richiami all’alleanza tra i Comuni lombardi contro il Sacro Romano Impero di Federico Barbarossa, correva l’anno 1167 e chissà se poi quel giuramento ci fu davvero.
Il primo pratone lo riempirono, si fa per dire, nel 1990. «Eravamo quattro scappati di casa, Pontida certo non influiva sulle scelte del partito, tantomeno sulle sorti del Paese» ricorda un dirigente leghista della prima ora. Quelli a giurare «fedeltà alla causa dell’autonomia e della libertà dei nostri popoli, oggi come da mille anni», e gli altri a ridere. Sono passati 21 anni e questo è il primo anno in cui si son fatti tutti seri. Perché da allora si sono avvicendati i governi e la Lega ha vissuto sull’altalena, fra boom da ago della bilancia e flop da rischio scomparsa, ma quel pratone è sempre più pieno. Erano 80mila nel 2009, per i 25 anni della Lega. Ma sotto i 50mila non scendono mai, non più, da molto prima. Piovesse sul fango, loro vanno. Non è più una roba di partito, Pontida. E nemmeno di numeri, a ben guardare.
È «il popolo padano che fa la storia», dice Bossi. E l’espressione è certo esagerata, però rende l’idea. Perché una volta all’anno Bossi va lì e rende conto di quel che fa. E perché una volta all’anno, il pratone gli può dire in faccia quel che pensa, facendo se non la storia con la maiuscola, almeno quella di una legislatura. «Nessuno ha mai fischiato, naturalmente, perché Bossi è furbo, viene e dice quello che la gente vuol sentire», sorride sornione il dirigente. Vero. Intanto però in questi giorni le cronache hanno registrato i «guai a chi contesta» dei vertici. Ed è quello il luogo cui la politica tutta guarda provando a fare o sperando di disfare. Non a caso in queste ore c’è Pier Luigi Bersani che va appellandosi a loro, quelli che prima erano i vichinghi ignoranti con le scarpe grosse senza il cervello fino e adesso sono stati improvvisamente promossi a fini conoscitori della politica, con l’invito a «un’ampia riflessione sull’opportunità di rilanciare sulla vecchia strada o trovarne una nuova, come credo sia indispensabile».
Lo sfottò contro il folklore leghista, dai riti celtici al celodurismo, da ironia s’è presto fatto delegittimazione. Il sarcasmo nel baffino alzato di Massimo D’Alema, leggete dei libri che è meglio. L’algido fastidio di Gianfranco Fini, che da leader di An fece srotolare otto chilometri di bandiere tricolore per le vie di Milano contro la prima «ampolla sacra» sul Po, era il 15 settembre 1996 e alle ore 17.39 a Venezia era nata la «Padania libera». E poi le spallucce dei vecchi democristiani, mangiar pane e salame mica vuol dire avere un progetto politico. Denigrare per sminuire, in un eterno e mai risolto «allarme per il voto di protesta leghista che ha colpito al cuore il mondo politico» di cui per primo si occupò Craxi, dopo le amministrative del 1990, restando però l’unico a chiedere la famosa riflessione autocritica. L’avesse fatta, probabilmente il centrosinistra non si sarebbe fatto soffiare dal Carroccio le piazze e le fabbriche oltre alle salamelle, e oggi il Pd non sarebbe costretto a mettere il cappello su un altro voto di protesta, quello per grillini e dintorni dipietristi, che non lo riguarda affatto.
Oggi c’è poco da ridere. Il Bossi delle «valli bergamasche armate» non esiste più. La Lega ha messo da parte i Borghezio e punta su una classe dirigente di 40enni, i Cota, gli Zaia, i Tosi, i Reguzzoni. Ma il palco di Pontida è sempre quello da cui Bossi nel 1995 diede i primi segnali della crisi di governo: «Berlusconi e Prodi sono d’accordo su un punto fondamentale: impedire che la Lega rivolti come un guanto il vecchio Stato». Non è solo che da lì ancora detta le condizioni. È che più del palco, può il prato. Lo stesso Umberto si è dovuto inchinare. Era il 1999 del 4 per cento alle Europee e si era presentato dimissionario.

«Mi rimetto a voi, avvisandovi che se respingerete le mie dimissioni mi costringerete a farvi fare cose tremende» aveva detto sparando a zero «sui dirigenti tiepidi che pensano di essere stati eletti per la loro bella faccia» e sulle liti interne da «accozzaglia di litigiosi regionalismi senza consenso, solletico anziché pugno sul centralismo». Parole che, a ben guardare, il Senatùr potrebbe ripetere anche domani. Il prato allora lo acclamò. Domani chissà. Comunque vada, la politica si decide lì, fra salamelle e copricapo bicornuti.

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