«Mi aiuterà a morire, non incarceratelo»

da Londra

Per amore di suo marito con la sua sedia a rotelle arriverà fino al tribunale dell’Alta corte. E la discussione del suo caso potrebbe cambiare il volto della legge attuale sul suicidio assistito. Debbie Purdy, una signora quarantacinquenne di Bradford, malata fin dal 1995 di sclerosi multipla, ha deciso di porre fine alla sua vita nella clinica svizzera Dignitas, dove la legge ti consente di farlo. La sua decisione è irrevocabile, non vuole continuare un’esistenza che per lei non vale più la pena di essere vissuta. In Gran Bretagna l’eutanasia non è legale, ma non è per veder legittimata la propria azione che Debbie si è rivolta ai giudici. Quello che la preoccupa è la sorte del marito Omar. Se lui le starà accanto aiutandola ad andarsene, tornato in Inghilterra potrebbe venir penalmente perseguito rischiando fino a 14 anni di prigione e questo lei non potrebbe perdonarselo. Vuole morire con la certezza che il suo compagno non dovrà pagare per quello che, secondo Debbie, è sostanzialmente un atto d’amore e di pietà insieme. Così la signora ha chiesto all’Alta corte di esprimersi con chiarezza sull’interpretazione della legge. Il 2 ottobre prossimo sarà in tribunale a rappresentare le speranze di centinaia di cittadini come lei. Secondo i dati raccolti dall’Independent sono già 650 i pazienti inglesi che si sono rivolti alla Dignitas e moltissimi si trovano nella stessa situazione della Purdy. Sono convinti che la legge britannica sul suicidio, che risale al 1961, li privi di fatto della presenza della persona amata nel momento in cui questa è fondamentale.
Debbie ha conosciuto suo marito Omar Puente nel 1995 in un bar di Singapore, proprio quando cominciava a farsi sentire la malattia. Aveva notato che qualcosa non andava quando era andata a ballare con degli amici. Le sue gambe si muovevano al rallentatore, come se avesse della gomma da masticare attaccata alle suole. Lui suonava il violino in una banda cubana di salsa e lei doveva scrivere una recensione del loro spettacolo per una rivista specializzata.

«Penso che il gruppo gli avesse raccomandato di essere gentile con me» racconta la Purdy ricordando il loro incontro. «Abbiamo iniziato a frequentarci e solo qualche settimana più tardi, al mio ritorno in Gran Bretagna, mi è stata diagnosticata la malattia. Siamo sempre rimasti insieme da quel momento».

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