È un vero paradosso che tocchi a me, sollecitato dalla provocazione di Di Pietro che dichiara «È necessario una volta per tutte decidere da che parte stare», difendere la Procura di Catanzaro. Dalla quale, con altri uomini, fui inquisito per concorso in associazione mafiosa insieme a Tiziana Maiolo. La ridicola accusa di allora, in tempi molto difficili fu subito sconfessata dalla solidarietà del Parlamento, e aver subito direttamente un’accusa così ingiusta e infondata, archiviata soltanto dopo otto mesi, fortificò le mie convinzioni sulla prepotenza della magistratura inquirente i cui errori troppo frequenti e derivati da teoremi non potevano essere ritenuti fisiologici, ma gravemente patologici. Quella malattia si è rivelata in tutta la sua drammatica realtà nello scontro fra le Procure di Salerno e di Catanzaro, ma è del tutto evidente che questa volta i magistrati di Catanzaro sono vittime del fanatismo colpevolista dei colleghi di Salerno i quali hanno acriticamente preso le parti di quel finto simbolo della giustizia mortificata che è stato identificato da giustizialisti di lungo corso come Di Pietro e Travaglio e anche da alcuni esponenti del centrodestra in Luigi De Magistris.
Questo personaggio pericoloso per le istituzioni ha scatenato una guerra soltanto per difendere la sua inchiesta insostenibile trovando una sponda nella Procura di Salerno che ha scandalizzato persino Giuseppe D’Avanzo il quale scrive: «L’iniziativa di Salerno, si è accertato, è stata alimentata dalle dichiarazioni di Luigi De Magistris ascoltato per 65 volte (65) senza alcuna convocazione. A quel che si capisce, ogni volta che aveva la voglia o la necessità di mettere a verbale una nuova circostanza, suggestione, sospetto o ricordo nel complotto che l’avrebbe fermato, De Magistris entrava nella stanza dei pubblici ministeri e rendeva la sua testimonianza», fino a una delle ultime in cui allegava come prova un’interrogazione parlamentare dell’ottobre scorso dei parlamentari di centrodestra Laboccetta, Bocchino, Papa (ex magistrato «con legami con numerosi esponenti politici sia campani che nazionali, quali ad esempio Cesare Previti», dice De Magistris), Speciale, Pecorella e altri, nella quale si ipotizza la sua incompatibilità con l’ordine giudiziario. Tutto questo, acriticamente, è entrato nelle 1.700 pagine del decreto di perquisizione che ha portato i magistrati di Salerno a irrompere con la polizia giudiziaria nella casa del procuratore Salvatore Curcio con arroganza. A occhi sereni Curcio appare un martire. La sua colpa sarebbe stata l’avere ereditato le inchieste di De Magistris, di averle chiuse con la richiesta di archiviazione concessa, peraltro, dal Gip.
Nel decreto di perquisizione dei magistrati di Salerno, esaltati da De Magistris, Curcio viene accusato di corruzione in atti giudiziari, per avere sconfessato De Magistris e svelato l’inconsistenza del suo teorema accusatorio, per profonda e onesta convinzione e non certo per interesse e per antipatia nei confronti di De Magistris. Con molto equilibrio Curcio considerò l’accusa di associazione segreta ipotizzata da De Magistris «approssimativa e sommaria riguardo al programma criminale». Per questo è stato denudato ed inquisito legittimando perfino la perquisizione dei libri e degli zainetti dei ragazzi. Tutto vero, con gli stessi metodi con cui si fanno le perquisizioni di narcotrafficanti, nella infondata presunzione che Curcio avesse voluto, per misteriose ragioni, sconfessare De Magistris. Questa violazione della casa di un magistrato, senza precedenti, è giustificata, capziosamente, con la formula suggestiva, ma perversa: «C’è un diritto speciale per i magistrati?». No, ma c’è il doveroso rispetto per la libertà e l’autonomia di giudizio, sempre reclamata per i magistrati, anche quando non se ne condividono le conclusioni. Come giustificare, infatti, se non come espressioni di fanatismo le risposte del procuratore capo di Salerno Luigi Apicella alle sconcertate domande dei commissari del Csm. Un uomo che agisce in base alla suggestione di un complotto contro De Magistris con un provvedimento ispirato e copiato dalle denunce di De Magistris senza un approfondimento serio per una valutazione del lavoro rigoroso del collega Curcio non può dirigere una Procura. Le sue risposte, diversamente da quelle sensate del procuratore generale di Catanzaro, Enzo Iannelli, mostrano confusione mentale.
«Fra i libri di scuola di quei bambini - dichiara Apicella - cercavamo i telefonini del padre». All’obiezione se non fossero sufficienti i tabulati telefonici e le intercettazioni, Apicella replica: «No. Volevamo accertarci che non avessero altri cellulari a noi sconosciuti». Alla contestazione che nel suo decreto vi sono notizie coperte da segreto istruttorio e anche dati che non c’entrano nulla con l’indagine sui magistrati catanzaresi, come la scheda personale del componente del Csm Anedda, la foto di Mancino e notizie tutelate dalla privacy sulla castità dell’ex presidente dell’Anm, Luerti (sic!), Apicella risponde: «Perché con tutto questo volevo motivare il sequestro degli atti. Se qualcosa non va si può anche sbagliare». E quando lo informano che le 1.700 pagine del decreto sono state pubblicate su Internet, risponde: «Non lo sapevo, ma farò qualche accertamento. E, se nel caso, aprirò un fascicolo». Magistrati come questi disonorano la magistratura e stabiliscono il principio che, su richiesta di parte, il lavoro corretto di un magistrato onesto come Salvatore Curcio viene mortificato e sconvolto arrivando fino all’atto simbolico di denudarlo e perquisirlo.
Se il Csm vuole restituire dignità e onore alla magistratura deve prima prima di tutto restituirli a Salvatore Curcio. Ed è confortante leggere che dopo i resoconti dei magistrati di Catanzaro («neanche per Totò Riina si usano questi metodi durante le perquisizioni») i membri del Csm abbiamo severamente detto ad Apicella: «Il capo è lei, e quindi a lei toccherà frenare gli eccessi... Non può risponderci come se a lei spettasse solo mettere il visto su quell’ordine di perquisizione così mastodontico». Da questa vicenda si apprende che non ci sarà certezza del diritto e rispetto dei cittadini, perfino se magistrati, finché prevarrà la cultura del sospetto, del pettegolezzo e del vittimismo mediatico dei Di Pietro e dei De Magistris. Le propagande televisive, i proclami da Santoro, l’eroismo garantito dai Grillo e dai Travaglio per questi falsi simboli han condotto a questa malattia mortale che divide la magistratura in squadre e squadristi che procedono per fanatismo ideologico e senza alcun rispetto della verità.
Vittorio Sgarbi
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