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«La mia sfida impossibile alla montagna inviolata»

L’alpinista italiano Simone Moro si accinge ad affrontare il Batura II

«La mia sfida impossibile alla montagna inviolata»

Fa sempre uno strano effetto sedersi sul proprio seggiolino da campeggio, appoggiare il Pc portatile sul tavolo e cominciare a scrivere. Così, lontano da tutte le comodità (anche se qua non manca nulla), dal mondo «civilizzato», dai rumori, dal rubinetto dell’acqua, considerato che qua bisogna andarsela a prendere sul ghiacciaio oppure, quando si è ai campi alti, sciogliendo neve nel padellino posto sul fornello.
La tecnologia però oggi non ha più bisogno né di cavi né di spine elettriche. Un pannello solare, un modem satellitare ed ecco che questo mio scritto viene ricevuto, stampato su carta, e ora è sotto i vostri occhi. Vi sto scrivendo da 4103 metri di quota in una delle valli meno frequentate del Pakistan settentrionale. Non sono qua né per motivi bellici né per motivi umanitari, ma semplicemente per tentare di scalare una montagna inviolata, ancora in attesa che un uomo, fragile e tenace insieme, salga sul suo punto più panoramico.
Si chiama Batura II questo candido punto del globo terrestre, protetto a meridione da un’ascia rocciosa verticale e a settentrione da un labirinto minaccioso di seracchi e crepacci. Non è l’unica montagna inviolata della terra, naturalmente. Ve ne sono ancora centinaia sparse un po’ ovunque, ma il Batura II è la più alta di tutte. Non è stato facile scovarla, reperire le informazioni alpinistiche, la sua storia con i tentativi di salita. La logistica, al contrario, non è stata affatto complicata, dopo un rodaggio di 35 spedizioni. In pratica: richiesta di permessi governativi, contatto con una agenzia locale, invio dei materiali via cargo, trasferimenti in aereo e in auto, ingaggio dei portatori locali (52 in tutto) e arrivo, in 4 giorni, ai piedi della montagna. Il paesaggio qui attorno è di quelli che lasciano senza parole anche il più insensibile degli individui, e palpabile si vede la mano del Grande Architetto.
Per ragioni di visto governativo ho dovuto sbrigare in autonomia queste mansioni logistiche. Il mio compagno di scalata americano ha infatti avuto dei rallentamenti dovuti a motivi burocratici ed è giunto al campo base solo ieri. Sono rimasto più di una settimana da solo con un cuoco pakistano che parla un inglese tentennante. Così ho passato le giornate a effettuare «ricognizioni» e a gustarmi alcune cime minori o semplicemente camminando lungo le lingue secondarie del ghiacciaio Baltar. È stato un bel regalo della sorte questa settimana di solitudine e silenzi. Certo mediata dal fatto che restando in contatto con voi non ho avuto la sensazione di essere un Robinson Crusoe o un Cristoforo Colombo. Mi sento però più Simone Moro e ascolto quella parte del mio intimo che troppo spesso giace silenziosa nella cantina del mio rocambolesco quotidiano.
Qui al campo base e sulla montagna i ritmi sono scanditi dalla luce del giorno e dalle tenebre della notte, dalle fame, dalla meteo, dalle condizioni del ghiaccio. Si torna ad essere animali e, seppure con un computer, comodi al campo base o con in mano una piccozza iper tecnologica, ci si rende conto che, una volta in azione, si è sempre soli davanti alla montagna. Questa scalata, indipendentemente dall’epilogo, non cambierà certo il destino del mondo, ma solo una piccola parte della mia vita.

Sarà comunque un altro momento in cui mi sarò sentito terribilmente vivo e felice.

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