Al ristorante di Milanello bivaccavano gli invitati dei matrimoni della zona, di Giussi Farina, presidente e azionista in carica, fuggito in Sud-Africa, nessuna traccia, degli stipendi a calciatori e dipendenti nemmeno, e i debiti col fisco erano tali da far scattare la procedura di fallimento. Questo fu il Milan che Silvio Berlusconii raccolse il 20 febbraio dell’ 86 , «un affare di cuore» come lo definì all’epoca e continua a definirlo ora che il costo dell’amore è diventato abnorme. Dapprima in cordata col petroliere Dino Armani (dal quale si separò bruscamente appena venne informato che lo stesso aveva promesso a Mantovani Franco Baresi e a Boniperti Paolo Maldini), poi schierando nel primo cda il fior fiore della galassia Fininvest, compreso un interista, l’avvocato Vittorio Dotti, sottoposto da Fedele Confalonieri a una pittoresca cerimonia di abiura. La seconda tappa della strepitosa avventura venne allestita, nel luglio dell’anno dopo, nel castello di Pomerio quando “sua Emittenza“, convocò gli stati generali del Milan per assegnare loro la missione.
«Dobbiamo diventare la squadra più titolata al mondo » ripetè e Billy Costacurta, giovanissimo, forse spaventato dalle dimensioni del traguardo fissato, commentò scettico: «Quest’ chi l’è matt».Non era matto Silvio Berlusconi, era animato, come confessò lui stesso, «da una lucida follia» che gli consentì, via via, di rivoluzionare schemi, abitudini e polverose abitudini del calcio italiano.
Introducendo figure nuove nel team milanista, preparando la riforma della coppa dei Campioni che fu poi adottata dall’Uefa con la Champions league attuale, ottenendo l’abolizione di alcune regolette (0 a 2 a tavolino in caso di lancio di monetine) retrò e pericolose per la stessa regolarità del campionato.
Da quei giorni cambiarono anche i criteri delle scelte di calciatori e allenatori. Per esempio il primo tecnico della lista (dopo il no di Trapattoni) fu Arrigo Sacchi, scovato in provincia, a Parma e il secondo nientemeno che Fabio Capello, allevato nella scuderia Mediolanum e salutato dai tromboni dell’epoca come “il cameriere di Arcore“.
Per reclutare un po’ di campioni veri, Berlusconi, scortato dal fedelissimo Adriano Galliani, fu costretto a far saltare il banco del calcio-mercato dominato all’epoca dal monopolio Fiat-Juventus. L’acquisto simbolico fu Roberto Donadoni, gioiellino dell’Atalanta, società satellite dei bianconeri, seguito più tardi dal trio olandese, scoperto in una notte di metà ottobre durante una gita ad Amsterdam in compagnia di papà Luigi, l’ispiratore della passione milanista. «Andammo in Olanda per ammirare Gullit e scoprimmo che c’era un altro corazziere da prendere al volo » raccontò Silvio Berlusconi più tardi. Si trattava di Frank Rijkaard, finito allo Sporting di Lisbona in un complicato giro di prestiti partito dall’Ajax. Per garantirlo a Sacchi, fissata nel giorno della firma del contratto. Per sottrarsi al linciaggio della folla, Ariedo fuggì col contratto nascosto tra le mutande.
Da Van Basten a Ibrahimovic, il Milan di Silvio Berlusconi si è sempre innamorato del talento purissimo e dei grandi giocolieri.
Così sono sbarcati a Milanello in sequenza Savicevic e Boban, Roberto Baggio e Weah , Shevchenko, Seedorf e Kakà. Alcuni fuori tempo massimo: come Ronaldo, Rivaldo, lo stesso Ronaldinho, Beckham. Altri presi in culla, come Pato o Thiago Silva. Con i successi collezionati (13 euro-mondiale più 13 italiani), sono arrivate anche le sconfitte, Istanbul 2005 la più dura da sopportare.
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