(...) Eppure ci sono aspetti di questa strana e bella città che agli occhi di un milanese, ma forse anche a quelli di tanti altri «foresti» come li chiamate voi, sono come dire, inauditi? Ecco forse laggettivo non è il più calzante, però il concetto è quello del «non farsene una ragione». Per rendere lidea: il degrado, la sporcizia, la mancanza di controlli, le zone franche in pieno centro, labbandono e la sciatteria in un posto così ricco e pieno di bellezza che se fossimo in America o in qualsiasi altra parte dEuropa lavrebbero messo in bacheca. Oltre a quella ostinata resistenza al cambiamento e a tutto ciò che comporta qualcosa di nuovo e di diverso rispetto ad uno stile già collaudato da anni, ops, secoli.
Dunque, partiamo dallinizio. Come ogni settimana, mi capita di prendere il treno per Milano e di ritornare a Genova, in treno appunto. Sorvoliamo sul fatto che non ci sia un collegamento veloce da Principe a Brignole e che la stazione della metropolitana non sia proprio a portata di mano né di valigia e che quindi devi fare una gimcana, un sali e scendi dalle scale - non mobili, quelle fanno parte delle cose in costruzione - in mezzo a cantieri aperti per prendere il treno di collegamento sotterraneo. Una volta messo piede in terra zeneize, il primo impatto con la città sono i giardini di Brignole. Con tutta la fauna che ci vive e di cui abbiamo già scritto e parlato. Qui non si tratta di essere razzisti perché sono rom e stranieri. Se fossero australiani o svizzeri sarebbe la stessa identica cosa, e lo stesso identico fastidio, disagio, imbarazzo, preoccupazione e timore. È una questione di buon senso, di civiltà, di rispetto delle regole che dovrebbero valere per tutti, indipendentemente dal paese dorigine. È un principio di democrazia, o no? E qui scatta il primo sgranamento di occhi: perché su, diciamocelo, è inconcepibile - questa volta laggettivo calza perfettamente - che il primo approccio di un «foresto» con Genova siano gli zingari che si lavano nelle fontane pubbliche o i sudamericani ubriachi. Ma cosa ancor più inconcepibile è che nessuno, amministrazione pubblica in primis, faccia nulla.
È vero, noi a Milano abbiamo la passione dei comitati, ne siamo infestati in ogni angolo della città, si muovono e alzano barricate per tutto, anche per le questioni più stupide e spesso fanno più danni che altro. Ma se qui il sindaco Vincenzi e i suoi fanno finta che vada tutto bene e che anzi questo sia segno di ospitalità e accoglienza, perché i cittadini accettano una situazione del genere? Come fanno a sopportare tanto e a non pretendere che la loro città abbia un aspetto dignitoso?
Noi foresti «non ce ne facciamo una ragione». Così come non ci facciamo una ragione del fatto che in pieno centro, ci siano intere zone in cui è meglio non andare o se ci vai lo fai a tuo rischio e pericolo. Ma perché? Genova ha il centro storico più grande dEuropa, potrebbe essere una chicca da far vedere al mondo intero e invece ci devo passare con il pensiero fisso che forse era meglio prendere unaltra strada? Per inteso: non si tratta di avere le città piene di militari, vigili o pattuglie dei carabinieri, ma tra lo zero e un barlume di controllo, qualcosa ne passa. Per esempio: perché ad ogni ora del giorno e della notte in piazza Matteotti sul sagrato della chiesa così come in Piazza De Ferrari sui gradini di Palazzo Ducale, ci devono essere accampati punkabbestia e disperati con cani e bottiglie? Ti rispondono che non fanno del male a nessuno. Vero. Ma forse più che male, è una questione di decoro, e un minimo di decoro ci vuole. È necessario. Per i turisti, per i foresti, ma prima di tutto per chi in queste zone ci vive ogni santo giorno. Così come per la sporcizia per strada, il tanfo nei vicoli. Fuori Genova ormai è un ritornello: «Ma fa atmosfera, fa città bella e dannata». Però poi, dopo che ti si infila per le narici nottetempo, capisci che lodore di piscio è lo stesso da Catania a Bolzano e non è che quello genovese è più romantico o dannato di altri. Puzza e basta. A maggior ragione se per evitarlo, devi farci lo slalom in mezzo. Ma perché?
In fondo il bello attira il bello e il brutto attira il brutto: una città sporca paradossalmente è un invito a sporcare, trasmette distanza, disinteresse e poco attaccamento e cura verso ciò che ti circonda. Non ti fa sentire accolto, se sei straniero, e nemmeno se sei indigeno. Vedere in mezzo ai cespugli e nei parchi pezzi di vestiti ridotti a stracci sbattuti lì, non spinge certo a non fare altrettanto, anzi fa prevalere una silenziosa licenza di zozzare. E soprattutto è un pessimo biglietto da visita. È come se per un colloquio importante di lavoro o un appuntamento damore, uno andasse con i calzoni bucati. Che figura ci farebbe? Noi foresti ci sbattiamo la testa tutti i giorni, non ci abbiamo fatto labitudine né il naso, e ostinatamente ci continuiamo a chiedere perché?
Perché non cè un controllo sugli autobus la sera quando dalle otto in poi i tuoi compagni di viaggio sono soltanto ubriachi e gente poco raccomandabile, perché la loro libertà deve in qualche modo limitare la mia? Perché nei giorni della movida i vicoli del centro storico diventano un tappeto di bicchieri, bottiglie e immondizia e ovunque ti giri hai quella sensazione che da un momento allaltro ti potresti ritrovare tuo malgrado in mezzo a una rissa? Perché alzi gli occhi e rimani a bocca aperta dalla bellezza dei palazzi, eppure vedi che cadono a pezzi e non cè niente e nessuno che ha la minima intenzione di sistemarli. «Son palanche», mugugnano. E già, son palanche. Ma al MoMa, li avrebbero già messi in mostra e allora di palanche sì che ne potreste fare.
Poi ci sono gli aspetti più folkloristici, diciamo così, della terra zeneize e per quelli vale la regola: paese che vai, usanza che trovi. Però dovete capire, noi a Milano non siamo abituati a tanta schiettezza e forse sono poco avvezzi anche gli altri turisti. E così capita di restarci male quando vai a visitare uno dei musei più belli di Genova e la prima cosa che ti dicono allingresso è che devi pagare il biglietto per entrare. È logico che si paga, e son ben contenta di farlo. Però magari cè qualcuno che non capisce, non sa che quello fa parte del «colore» del posto, e invece di aprire il borsellino, alza i tacchi e se ne va. Oppure quando di venerdì chiami lidraulico e prima ancora di mettere la testa nei tubi, ti avverte che oggi proprio non è giornata, deve fare il mezzo ponte e se si tratta di una cosa lunga, non se ne parla. Ma come? Io ho il lavandino che perde: la pago, guardi anche il doppio, abbozzi per disperazione.
O se entri in una profumeria, cerchi di raccapezzarti tra mille prodotti, timidamente chiedi un aiuto alla commessa. E quella ti rispedisce col muso sullo scaffale dicendo che tutte le spiegazioni le trovi sulletichetta. Sì, però, se lei mi dà una mano, facciamo prima. Abbiate pietà, siamo milanesi, per noi il tempo è una questione di vita o di morte. Lo sapete bene, ci avete fatto diventare una macchietta anche per questo.
Ma il dolore più grosso è salire sullautobus, la cartina in mano quando ancora non hai capito da che parte è il mare e da quale sta la Lanterna, ti avvicini allautista che è lì nellultima fila dei sedili senza fare nulla e gli domandi a che ora partirà il bus. «Belin, cè scritto sul pannello luminoso. E che non lo vediii???». No, mi scusi. Non ci avevo fatto caso. Sa comè, siam foresti.
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