Un secolo di scultura sommersa. È questo l'oggetto della mostra «100 anni. Scultura a Milano 1815-1915», realizzata e prodotta dalla Galleria d'Arte moderna di Milano in Villa Reale, con il patrimonio quasi sconosciuto delle proprie collezioni, senza prestiti, ma solo con rivelazioni e restauri, sotto la direzione di Paola Zatti e le cure di Omar Cucciniello e Alessandro Oldani. Una proposta nobile e orgogliosa, che supera la frequente esibizione voluttuaria di molte mostre, spesso inutili e neppure celebrative, che passano come un temporale d'estate. Qui invece vediamo ciò che era male o precariamente esposto, in un percorso sistematico, liberato (soprattutto i gessi) di una sporcizia dovuta alla trascuratezza, alla indifferenza per ciò che si ritiene di poca e occasionale importanza.
Se ne era bene accorto, al limitare del percorso, nel 1924, Ugo Ojetti: «A vedere trascurate, anzi escluse, la pittura e la scultura nostre dell'800 da tutte le storie dell'Arte moderna scritte da stranieri, noi non gridiamo all'ingiustizia. Dopo Canova, nessun artista italiano ha avuto ammiratori e seguaci, come egli ebbe, in tutto il mondo. Padrona e maestra dell'arte per più di un secolo è stata meritatamente la Francia. Ma a mettere un poco d'ordine nella confusione, a ricollocare le troppo facili fame al loro posto di seconda fila, a riscoprire ascendenze e discendenze, un'esposizione siffatta darebbe questi vantaggi certi». Eccola, dopo quasi un altro secolo. Vero è che, di quel patrimonio raccolto e concentrato, manca l'opera più sensazionale, isolata, a poco più di cento metri, nel parco: la Trilogia: il santo, il giovane, il saggio del 1906, inamovibile e richiamata comunque nella precedente mostra, dedicata nella stessa sede all'autore, Adolfo Wildt.
La vasta articolazione degli studi e i collegamenti con gli importanti monumenti nelle piazze milanesi, oltre alla ripartizione in soggetti mitologici post-canoviani, in proposte per esposizioni nazionali, in temi letterari, in Scapigliatura come dissoluzione della forma, in Realismo sociale, rendono questa occasione e il catalogo un momento notevole di conoscenza e approfondimento di una stagione dimenticata dell'arte italiana, in controcanto al caos denunciato nel 1937 in un eloquente articolo sul Corriere della sera: «Duecento statue prigioniere», gessi e marmi alla Villa Reale, sono «incarcerate in due grandi celle che formano la loro gipsoteca temporanea, ma sono sparse un po' dappertutto, tra casa e giardino, nel lieto palagio: decorano gli atrii, sorvegliano gli accessi e i vestiboli, si spingono nelle aiuole a far da erme vigilanti... scoprimmo due formìche sulle labbra di un Socrate, un bruco nel palmo di una Grazia. Non appena sulle statue torni un po' di sole, gli insetti vanno sempre a trovarle. È il loro alpinismo primaverile, la loro villeggiatura di pietra».
Le stesse, ordinate e pulite, ci conquistano ora per forza di racconto, superate le soglie del neoclassicismo. In particolare le interpretazioni di soggetti romantici in Tantardini (Faust e Margherita) o Zenobia di Giosuè Argenti; o la letteratura di evocazione lirica, come la purissima Preghiera del mattino di Vincenzo Vela, o la intensa Leggitrice di Pietro Magni, capolavori rimossi, o la dimenticata Fidanzata italiana di Giovanni Spertini, o la inquietante Pazza per amore di Antonio Galli, e via alle varie nudità di Ninfe, Dee, Flore di Barzaghi, Vela, Corbellini. La Scapigliatura si esprime nelle forme nuove di Giuseppe Grandi, al centro di Milano, con il monumento alle Cinque Giornate, e soprattutto con le disgreganti e disgregate invenzioni di Ernesto Bazzaro e Paolo Troubetzkoy. Nei grandi temi delle conquiste sociali, potentissimi appaiono Enrico Butti con il Minatore e Giulio Branca con l'Ave Maria.
Notevolissime e vibranti di energia le prove di Riccardo Ripamonti (Ultimo Spartaco e Caino). Già nel futuro, in prossimità di Wildt e come un Carena del primo tempo in scultura, appare Emilio Quadelli, con Gioia, morbido e avvolgente come un Maillol, e tanto più vero.
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