Caro direttore,
seguendo il dibattito sul futuro di Milano e sulla sua vocazione ho pensato che fosse interessante farti leggere queste riflessioni.
Che cos’è una grande città? È difficile dirlo, in una parola. Ma io so che cosa non è una grande città: so che Milano non è più una grande città. Perché una grande città non è fatta soltanto di case e di strade, di caffè e di uffici, di fabbriche e di alberghi, di palazzi e di tuguri; una grande città ha un suo bene e un suo male, ma un bene e un male diversi da quelli di un piccolo paese. Una grande città ha un suo bene organizzativo, quasi meccanico, un suo cuore che funziona a gettoni, ma che risponde a ogni chiamata, e ha un male sconfinato, tenebroso e solenne. In una grande città, il marmo e il cemento, l’acciaio e lo stucco, le torri e le casupole, la miseria e la ricchezza, il vecchio e il nuovo si sposano e diventano tutt’uno, come accade a Londra, come accade a Parigi; e appena vi ponete il piede anche se vi sentite più piccoli del solito, un po’ smarriti, un po’ intimiditi da quel gran correre, da quel gran daffare, tuttavia ne restate sedotti, soprattutto perché capite che una grande città pensa «più in grande» di un paese, soffre e si diverte, fa e ozia in una misura più vasta di una piccola città.
Ma appena mettete il piede a Milano, vi accorgete che qui, in questa antica e nobile e immensa città, non si pensa in grande: vi accorgete che qui tutto è meschino e misero e pretenzioso come in un paese, che il bene il male di Milano sono eguali a quelli di una grossa borgata; v’accorgete subito che Milano è una vasta periferia industriale, che circonda un piccolo centro di paese; v’accorgete che non si sono più tradizioni, che non c’è più il carattere, l’ordine, il decoro, lo stile di una grande città: vi sono soltanto case, finestre, porte e insegne, e cittadini che s’affaccendano, e veicoli che corrono; v’accorgete, senza fatica che qui tutto è casuale, contraddittorio, slegato, abbandonato, senza una guida, senza un criterio, senza un motore centrale. Capite che Milano è un grosso corpo senza testa.
E tutti sanno che la testa di una città è il suo sindaco. Ma Milano si trova nella curiosa situazione di una città che ha un sindaco, ma non ha lo stesso la testa. È una città in maniche di camicia, e, per di più, con una camicia sudicia: una città senza decoro, senz’ordine, senza regole, senza stile, balcanica: strade senza marciapiedi, giardini senza piante, spelacchiati e malconci, quartieri popolari sbriciolati, polverosi, sudici e squallidi, strade nuove tracciate senza criterio, con case alte e basse, a sghimbescio, storte, orride, ridicole; viali enormi senza sbocco; e larghi spiazzi, e vuoti incolmabili, tragici; e ovunque un’aria di abbandono e di provvisorio; ovunque i segni dell’arbitrio dei cittadini e della potenza degli speculatori e della stupidità degli architetti e della scarsa serietà degli uffici edilizi, dove posate l’occhio, vedete che ogni cosa, qui, è fatta a casaccio, secondo il volere di chi ha più quattrini e più amici, che qui ognuno riesce a far ciò che più gli conviene: che non c’è, insomma, regola cittadina e la città si frantuma, si immiserisce, diventa sempre più vasta e meschina, sempre meno europea.
Un tempo, molti anni fa, prima del fascismo, Milano era una città europea; era una delle grandi città europee; oggi no, oggi Milano è soltanto un grosso centro abitato, non è una grande città. Scendete alla stazione: guardatela. Tutto vi è sistemato nel peggiore dei modi; tutto è scomodo, disordinato e pretenzioso. C’è molto marmo, c’è molto cemento, ma non c’è un cartello ben fatto, non c’è una panchina comoda, non c’è un buffet confortevole, non c’è nulla di quel decente e modesto e logico ordine che regna in una stazione svizzera.
Uscite dalla stazione: ecco un piazzale inutile, squallido, con fette di giardinetti ridicoli e miseri, ed ecco che la Metropoli vi accoglie con i suoi vasti avvisi che promettono un falso paradiso. Qui appaiono quei carrettini dei venditori di penne stilografiche, di cocomeri e di «robetta» che incontrerete nelle vie di tutta la città; qui comincia quella rete di fili e di pali, e di pali-reggifili, e di pali-reggi-lampade che non si vede in nessuna parte del mondo (in una stessa via, vi sono pali di ferro che reggono il filo del tram, pali che reggono i fili della luce, e pali che reggono altri pali. Se ne potrebbe risparmiare la metà, ma più pali si mettono più c’è chi guadagna); e qui senza osservare il cronico abbandono di ogni proprietà civica, qui comincerete a conoscere quell’aspetto misero, quelle povere pretese, quei ripieghi, quei lussi di poveri-diavoli, quello «stile da voler-ma-non-posso» che un tempo era caratteristico soltanto delle città del mezzogiorno. Scoprirete, finalmente, quella paura di mostrare la verità di una grande città, ossia quel finto decoro, quella voglia di «far figura», quella «povertà pretenziosa» che, ormai, definiscono Milano. E il nostro sindaco ha fatto e fa tutto il possibile perché Milano non mostri le sue magagne: la camuffa, la trucca, l’aggeggia, l’infarina da grande città, come certe mezze-calzette si camuffano da signore. Il nostro sindaco ha paura della verità, ha paura della plebe, dei poveri, della miseria, teme il tragico delle grandi città, ha orrore di quel nero, di quel grigio, di quel plumbeo carattere dei grandi centri industriali; egli è per il «lezioso», per la finzione che nasconde e che ingentilisce. La sua, certo, non è la Milano di Parini; la sua è la Milano della Scala.
Fra tutti i problemi di questa immensa città, difficile, complessa, caotica, il nostro sindaco ha scelto quello più mondano, più allegro, più inutile: il problema della Scala. Ormai, il solo grande problema cittadino che gli sta a cuore è la Scala, una grande macina di milioni. E se il nostro sindaco mette il naso fuori di casa, è soltanto per accompagnare i coristi e i tenori e le primedonne della Scala a Londra, per dire due parole agli inglesi intorno al teatro della Scala.
Egli non va all’estero per studiare come è organizzata una grande città, non va a Zurigo per impararvi come funzionano i servizi, non va a Nuova York ad arrossire: no, va a Londra, per assistere alle recite della Scala.
Certo, in una società di pappe come la nostra, fa bene a fare ciò che fa: i giornali parlano e parleranno sempre della Scala; la Scala, ormai, vive, come il Duomo, per forza di tradizioni storiche e artistiche; e il nostro sindaco, ci si attacca. I lunghi articoli, pubblicati sul Corriere della sera, a favore della Scala, sono tanti articoli a favore del sindaco, tante medaglie guadagnate con poca fatica, per merito di Verdi e di Bellini, del Piermarini e di Toscanini.
Dicevamo, dunque, che la nostra città, per virtù del suo sindaco ha preso quel carattere misero e pretenzioso comune alle mezze-calzette: ed è la verità. Chi avesse ancora qualche dubbio, in proposito non ha che a leggere il Corriere della sera (del 28 settembre).
Nella cronaca cittadina, il massimo giornale d’Italia, sotto il titolo «Il salotto di Milano», annuncia che «la Galleria Vittorio Emanuele sarà rivestita tutta di marmo»; e lo dice in tono soddisfatto, senza una punta di dubbio. Ascoltate: «La Galleria non rimarrà così. Fra pochi giorni, nell’Ottagono, verrà ricostruita una arcata; verrà cioè finita una arcata-modello che darà l’idea del come diverrà la Galleria a opera finita. Niente paura... Non ci saranno cambiamenti perché, con le opere di finimento tutta la decorazione apparirà quale era, cioè quale la disegnò e la costruì il Mengoni. Ma le lesene, i capitelli, le stesse cariatidi che in alto sostengono l’ultimo cornicione saranno in pietra di Vicenza, quella pietra così calda, di un colore che tanto piacque al Palladio, che ne fece sì largo uso negli edifici della sua mirabile città. Le decorazioni attuali sono in gesso - e nessuno forse l’ha mai sospettato - e furono fatte in gesso perché il Mengoni, sollecitato a finire il monumento, non ebbe la possibilità di farle scolpire. L’effetto, come si vede, è eguale; ma il marmo sarà certamente più adatto, più proprio e più elegante. Anche tutta la parte decorativa di gesso che è sopravvissuta alla distruzione sarà sostituita con la pietra, così come di pietra saranno le cariatidi».
Avete sentito? La Galleria, e ciò farà dispiacere ai milanesi, non è quel capolavoro che si racconta, e il Mengoni non era davvero un secondo Palladio, e le sue decorazioni in stucco, non belle, avevano, tuttavia, il pregio di essere leggere. Ora, rifatte in marmo, diventeranno pesanti, e mostreranno la poca grazia di chi le eseguì per primo. Che il Mengoni, per fretta, fosse stato costretto a servirsi dello stucco, fu gran fortuna: il marmo non era suo amico: i suoi capitelli, i suoi cornicioni, le sue opere in pietra sono miserevoli: vi si sentono, sotto il compasso, il manuale di architettura, il calco, il gusto dei buoni da mille umbertini. Ma queste non sono ragioni valide, oggi. Oggi, quel che conta è «ingentilire», è «mascherare», è «rivestire». Le spese non contano.
Dice il Corriere della sera: «L’effetto, come si vede, è uguale, ma il marmo sarà certamente più adatto, più proprio, più elegante». Ecco: questi sono gli argomenti di oggi.
E il parere del sindaco combacia stranamente con quello del giornale borghese: che dirvi, cittadini? O la borghesia non ha più senno, o non ne ha più il sindaco.Queste parole, che sono il mio pensiero oggi, le ha scritte sul «Tempo di Milano» il 10 ottobre 1950 Leo Longanesi. Evidentemente il tempo di Milano è sempre stabile.
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