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Milano scopre l’arte aborigena contemporanea

Nel 1971 un insegnante inglese fu mandato a «civilizzare» gli abitanti di Papunya Tula: insieme crearono una tecnica diventata fenomeno culturale

Milano scopre l’arte aborigena contemporanea

Silvia Broggi

Metti una tradizione artistica antichissima, che da millenni ripete gli stessi segni, dal carattere sacro e dal profondo significato rituale.
E metti un giovane insegnante bianco, mandato nel cuore del deserto australiano a «civilizzare» la popolazione indigena.
Infine, immagina che per uno di quegli strani scarti del destino, tra l'insegnante e i suoi allievi si crei un rapporto di scambio e di collaborazione.
Nasce così, all’insegna di un intelligente quanto inusuale incontro di culture, uno dei più interessanti fenomeni artistici degli ultimi anni: l'arte aborigena contemporanea.
Nel 1971 Goffrey Bardon - è questo il nome dell'insegnante - arrivato nel villaggio di Papunya Tula osserva le composizioni che gli aborigeni «disegnano» sulla terra utilizzando in prevalenza piccole palline di argilla, impastate con vari collanti e colorate con colori naturali: sono rappresentazioni di un mondo mitico, di straordinaria forza espressiva, di cui solo gli anziani conoscono appieno il linguaggio.
Bardon riesce a convincere alcuni di loro a raffigurare sul muro esterno della scuola elementare una di queste «mappe».
I segni e i colori sono quelli della tradizione, ma la loro «traslitterazione» avviene con i mezzi della cultura occidentale: utilizzando colori acrilici che trasformano le sfere di argilla in puntini colorati, ma soprattutto servendosi di supporti rigidi che trasformano ciò che era effimero, destinato a durare solo il tempo della cerimonia, in qualcosa di duraturo e, al tempo stesso, ciò che non aveva limiti di spazio - la rappresentazione poteva estendersi fino a coprire un ettaro di terreno - in una composizione dai confini ben definiti (dopo il muro verrà utilizzato ogni genere di supporto, lavagne, assi, per approdare infine all'uso della tela).
Nel giro di un anno a Papunya Tula vengono eseguite un migliaio di opere, molte delle quali di livello eccezionale. E in seguito altre comunità e altre regioni - Kimberley, Warmun, Kintore, Balgo Hills - cominciano a produrre dipinti altrettanto importanti con infinite variazioni nelle composizioni e nello stile.
Nei decenni successivi questa pittura è diventata un fenomeno artistico di portata internazionale. A partire dal 1995, anno della prima asta, Sotheby's e l'australiana Lawson&Menzies tengono periodicamente aste dedicate a questo settore, che ha visto la nascita di gallerie specializzate, di importanti collezioni pubbliche e private - come il Museo di Arte Aborigena di Utrecht e la Collezione Essl di Vienna - e quotazioni in continua crescita, che hanno raggiunto gli ottocentomila dollari australiani (circa 500.000 euro) anche se è ancora possibile trovare dipinti di ottima qualità a cifre dieci volte inferiori.
In Italia l'incontro con questa pittura risale al 2001, grazie ad una bella mostra allestita a Torino, cui hanno fatto seguito alcune opere esposte al Pac, a Milano, e una mostra a Firenze, nel 2004. Ma si tratta ancora di un'arte poco conosciuta.


Di grande interesse, quindi, l'esposizione, inaugurata venerdì e che resterà aperta fino al 31 maggio a Milano, alla Galleria Mazzoleni (via Morone 6): una trentina di opere rappresentative di sette tra le dieci tendenze più interessanti dell'arte aborigena contemporanea. La rassegna, ideata da Isabella Tribolati e Valeria Mazzoleni, è corredata dal catalogo edito da Skira, a cura di Francesco Porzio.

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