Cadevano come mosche, tenenti e sottotenenti, negli assalti dalle trincee del Carso e dell'Isonzo: perché a loro toccava guidare i plotoni all'assalto sotto il fuoco asburgico. Nessun conflitto, né prima né dopo, vide un tale massacro tra gli ufficiali di rango inferiore. Una generazione di diplomati e di laureati venne decimata prima che arrivasse Vittorio Veneto.
Quarantasei, di quei giovani ufficiali, erano avvocati milanesi. Molti erano ragazzi nati intorno al 1890, che negli studi di legge avevano messo le basi per una esistenza tranquilla ed agiata: e che erano invece stati investiti in pieno dalla temperie del conflitto mondiale. Alcuni erano stati fieri assertori della necessità di quel conflitto per portare in Italia le «terre irredente», Trento e Trieste, come il pariniano Carlo Floriani; altri, come Attilio Deffenu, erano arrivati all'interventismo sull'onda della passione rivoluzionaria e della predicazione di Filippo Corridoni.
Per una settimana, fino a mercoledì prossimo, le storie dei quarantasei avvocati morti nella Grande Guerra sono raccontate in tribunale, nel grande palazzo di giustizia che avrebbero visto sorgere se fossero arrivati vivi alla fine delle ostilità. A raccoglierle, con lavoro certosino, è stata l'Associazione nazionale volontari di guerra, partendo dalla grande lapide che, nel salone del primo piano, ne riportava solo i nomi. Sfidando la vulgata modernista della «inutile strage» costituita dalla Grande Guerra, il presidente dell'associazione, l'avvocato Andrea Benzi ha frugato ogni sorta di archivio perché, dice, «quei caduti non hanno alcuna colpa se non aver fatto il loro dovere fino in fondo e non meritavano l'oblio». Ne è nata una raccolta di immagini ingiallite dal tempo, di fogli matricolari, di biografie che tutte insieme formano il racconto collettivo di un'epoca cruciale del nostro passato recente.
Ci sono storie consacrate nel marmo di una targa stradale come quella dell'avvocato Carlo Freguglia, cui è intitolata la via su cui si affaccia il tribunale: cui la ferita alla testa rimediata vicino Gorizia e valsagli una medaglia d'argento, non aveva tolto il coraggio: e che morì sull'Herma ad agosto del 1917, portando all'attacco la sua compagnia. Ma anche vicende straordinarie e semisconosciute: a Italo Cerruti, figlio di un ufficiale garibaldino emigrato in Colombia, il governo di Bogotà aveva sequestrato tutte le proprietà e dovettero arrivare le navi da guerra italiane per porre fine alla crisi: lui intanto era tornato in Italia, era divenuto repubblicano e interventista, e fu ferito a morte a ottobre del '15 a Sdraussina, nella seconda battaglia dell'Isonzo. «La Grande guerra si chiama grande perché grandi furono le persone che l'hanno combattuta», diceva ieri Remo Danovi, presidente dell'Ordine degli avvocati.
Ma dai quarantasei pannelli allestiti nella «Sala Gualdoni» del tribunale non ci guardano volti ispirati da eroi o da missionari ma facce comuni di gente comune, uomini giovani che si erano affacciati al nuovo secolo portando ciascuno il proprio bagaglio di passioni, di idee, di progetti grandi e piccoli. E che nel lavoro di avvocato, nella passione per il diritto declinavano ognuno le sue inclinazioni. Ma quando il Paese chiese loro una scelta diversa non si tirarono indietro.
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