Bella, impossibile e verticale Così il cinema «vede» Milano

Dopo «Gli sdraiati», venerdì esce «L'assoluto presente» ritratto di una città senz'anima che ha cambiato volto

Stefano Giani

Nessuno fa pace con il proprio passato. Neppure una città. Neppure Milano, per fotogenica che appaia o bugiarda illusionista nel dare a intendere ciò che non è. Da sempre il capoluogo lombardo ha giocato con le età. Il tempo. La sua fisionomia. Ha nascosto senza cancellare. Ha spostato continuando a esibire. Rimescolato monumenti come carte da gioco. Poi il bivio di Expo, indietro non si torna. Oggi è una metropoli che il cinema inquadra per quella che è, una splendida trasformista che si alza e si abbassa. Ma inevitabilmente. Non è più. Quella di prima.

L'assoluto presente di Fabio Martina, da venerdì in sala, calca la mano sul tempo. Un istante attuale che tuttavia nasce ieri. Perché tutto si svolge in ventiquattr'ore, il compleanno di Cosimo, il protagonista, festeggiato dai due amici, con i quali uccide la noia aggredendo un giocoliere e lasciandolo lì. Tra la vita e le morte. In terra. Per le percosse. Con i suoi birilli inutili sentinelle. Accadde davvero a cavallo tra il 2007 e il 2008. Accadde e non c'entravano i bulli e nemmeno i cattivi. Fu opera di tre ragazzi di buona famiglia. In fuga dopo l'agguato. Milano non è più quella di dieci anni fa, ma la cronaca consegnata agli archivi si cristallizza nell'oggi che all'epoca era futuro. Eppure. Eppure le aggressioni possono ancora ripetersi e in effetti tornano. Allora come ora. In una metropoli che poco divide con quella che fu. Perché nessuno fa pace con il proprio passato.

Nel tessuto sociale che non cambia, dove il povero convive con l'arrivista, il ricco si annoia e il giovane vive di sballo, c'è chi lavora onestamente. Tutti assaggiano, nelle loro dimensioni diverse, una Milano che schiaccia. Seduce. Nasconde. Protegge. Emargina. È la città verticale che appare alta. Irraggiungibile. I protagonisti di Martina la osservano dall'alto di un grattacielo a Porta Nuova. E il mendico, nei panni di don Rigoldi, è appiattito sul marciapiede di piazza Aulenti. L'architetto che cancellò il grigiore da Cadorna piantandovi ago e filo. Stanno in alto come i sogni, i tre ragazzi dell'Assoluto presente. Stanno in rapporto al policentrismo di un capoluogo che non è solo piazza Duomo. E sotto la Madonnina. Ha mille assi. Da CityLife a corso Como. I Navigli. Da Vercelli a Buenos Aires, strade per portafogli gonfi. Dai Giardini pubblici, periferia lustrini e pailletes dove si accampano barboni e perditempo. E periferia vera. Fatta di fabbriche chiuse, fatiscenti simulacri di preistoria industriale. Dove il distratto figlio di papà passa disinvolto sul Suv investendo un cane.

È L'assoluto presente di una città che aveva già mostrato il meglio di sé anche negli Sdraiati di Francesca Archibugi dove altri figli di genitori divisi sono in balia di loro stessi. Vittime di famiglie dai sentimenti uccisi. Vuoto di padri percepibili per riflesso. Secondo Martina. Pieni di figure paterne a spessore zero. Secondo la Archibugi. Tutti ugualmente carenti. Inevitabilmente assenti. Dolosamente e dolorosamente indecenti.

Milano dei lampeggianti per gli aerei. Torri e grattacieli fianco a fianco alle case anni Trenta. Bella da vedere e frequentare. Amara da assaggiare nel tepee dei nativi. Digitali. Chiusi fra le onde di un telefonino senz'anima.

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