Branduardi: le mie ballate sono meglio dei talent show

Branduardi: le mie ballate  sono meglio dei talent show

Non più di una settimana fa, all'Olympia di Parigi, è stato protagonista di un concerto che aveva già registrato il tutto esaurito un mese prima della data. In Germania, è praticamente lo stesso: dici Angelo Branduardi e riconosci il gradimento di un pubblico che nella musica è abituato a cercare qualcosa in più dei suoni innocui assorbiti per inerzia. «Qui in Italia – spiega divertito il cantautore nato a Cuggiono, vicino a Milano, ma cresciuto artisticamente a Genova – confido in quello che io chiamo il “club dei 5 milioni“. É come se fosse una grande città, i cui abitanti sono sparsi un po' ovunque. Sono individui armati di curiosità culturale, e resistenti: all'imbarbarimento del lessico, delle immagini, dei suoni». A loro è dedicato l'ultimo progetto musicale discografico e live di Angelo Branduardi, atteso al Teatro Nazionale questa sera (ore 21, ingresso 51,75 - 34,50 euro, info 02.00.64.08.88) con «Il Rovo e la Rosa – Concerto 2014». In formazione da trio con Maurizio Fabrizio (chitarra e tastiera) ed Ellade Bandini (percussioni e batteria), il cantautore dai riccioli imbiancati di anni e di note propone un repertorio incentrato su diverse ballate inglesi del periodo elisabettiano, alle quali immancabilmente si affiancheranno i brani più significativi della sua carriera, da Alla fiera dell'est a Cogli la prima mela. Una scelta musicale tra passato e presente, che fa rima con coraggio ma anche con aristocrazia: «Io comunque ho fatto musica anche molto popolare, e parto sempre dal presupposto che, dopo 40 anni di carriera, la scintilla iniziale di ogni progetto è il puro piacere personale. Certo, in questa ultima sfida c'è il voler recuperare bellissime ballate di seicento anni fa, risalenti a un periodo precedente al trionfo della musica tonale, prima del trionfo delle armonie». Illustri colleghi internazionali, ad esempio Sting, hanno imboccato questa stessa stimolante strada: «Sì, ma con quindici anni di ritardo rispetto a me – precisa con placido orgoglio Branduardi – In ogni caso, e questo lo dico spesso perché risulta efficace, io sono come l'aglio: un gusto estremo che qualcuno sinceramente detesta ma ad altri piace un sacco. In entrambi i casi, sono perfettamente riconoscibile». E se oggi la stessa percezione di ciò che è «classico» sembra inesorabilmente perduta nelle giovani generazioni, tra fruizione musicale immediata e legata al qui e ora di Internet, la risposta di Branduardi è serena: «Sono fatti loro: la discografia è morta, i talent-show propongono volti che durano sei mesi. Sinceramente non vorrei mai essere un artista che inizia ora la propria carriera».

L'incontro-scontro che si terrà oggi al Teatro Studio tra Luca Ronconi e Franco Cordelli intitolato «critici e pubblici» mi porta a fare delle considerazioni su quanto stia accadendo nel primo decennio del terzo millennio a proposito della critica teatrale, ma anche di quella letteraria e musicale. Ho capito che, se la critica esce dalla porta, ovvero dai grandi quotidiani, rientra dalla finestra attraverso internet e i blog. In che maniera? Con quale professionalità? Ecco il punto: il critico deve essere considerato uno specialista, alla stregua di un cardiologo o di un infettivologo: oggi forse si potrà parlare di maggiore democrazia nel giudicare, ma certamente si capirà quanto sia venuto a mancare lo spirito professionale, perché un critico vero, anche se non accademico, deve sempre studiare, essendo la sua una professione primaria che rischia di essere sostituita dallo spirito anarchico dei blog e da molta improvvisazione. Da tempo si parla della sua funzione storica, del mestiere, dei vizi, dei difetti, del ruolo che oggi occupa dinanzi all'industria dello spettacolo e di quello che occuperà domani, essendo, la sua perdita di potere, in continuo aumento, ma si è anche parlato della sua abdicazione dinanzi alla recensione di qualità, quella che permette di recuperare il senso e il valore di ciò che si legge o di ciò che si vede. Mi chiedo allora se ci sia ancora bisogno di un canone, di una teoria estetica, di un metodo. Oggi l'editoria, lo spettacolo, soffrono di bulimia; il critico prova ansia davanti all'accumulo di libri, di messinscene, di performance che vanno spesso, in direzioni opposte. Nel frattempo i livelli di lettura sono aumentati, il piacere della rappresentazione ha preso il posto delle trame tradizionali, tanto che lo si può scoprire altrove.

Personalmente credo che, nel secondo millennio, si sia esaurito un ciclo e che il critico militante si trovi dinanzi ad una nuova stagione, quella della transizione verso le diverse frontiere del teatro, alle quali occorre accostarsi con lo spirito del pioniere. A questo punto, il critico dpvrebbe riscoprire la sua solitudine, l'indipendenza, l'impegno e il coraggio.

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