Mimmo Di Marzio
Se la produzione artistica rappresenta sempre la storia di un uomo, altrettanto è lecito dire per una grande collezione. Soprattutto quando questa non è il principale frutto di un investimento economico o (peggio) di uno status symbol, ma incarna una reale e sincera passione. La collezione di Giuseppe Iannaccone, a cui la Triennale dedica la prima grande mostra pubblica intitolata «Italia 1920-1945, una nuova figurazione e il racconto del sè», appartiene a tal punto a questa categoria, da costituire essa stessa un piccolo ma importante tassello per la storia dell'arte italiana. E certo stupisce che l'esposizione di quasi cento capolavori circoscritti negli anni tra le due Guerre venga ospitata dalla Triennale anzichè da quella che sarebbe la sede più ovvia e naturale, il Museo del Novecento. «All'Arengario prestai opere di Ziveri e di Scipione in comodato per tre anni, in virtù della mia amicizia con Claudia Gian Ferrari - racconta l'avvocato Iannaccone - ma una collezione è un racconto che ha un senso compiuto solo nella sua interezza. Se finalmente è arrivata questa mostra pubblica, devo ringraziare l'intuizione del presidente di Triennale Claudio de Albertis che ci ha da poco lasciato. E a lui, che mi fece notare l'importanza di rappresentare la mia raccolta in un edificio degli Anni Trenta, voglio dedicare l'evento».
Percorrendo la grande sala allestita dai curatori Alberto Salvadori e Rischa Paterlini, che per l'occasione hanno felicemente riscoperto la luce naturale dei finestroni affacciati sul parco Sempione, si ha netta la sensazione di riscoprire una pagina di storia ricca di inediti che raccontano un'Italia dove l'arte era sinonimo di libertà oltre che di umanità. Erano anni dominati da una cultura «di regime» che premiava l'iconografia del ritorno all'ordine propugnato dal Novecento Italiano di Margherita Sarfatti. Ma al classicismo propagandistico (cui non si sottrasse Mario Sironi) si contrappose il sommesso grido di matrice espressionista di un nucleo di artisti che posero al centro dell'opera la poetica dell'autoconsapevolezza. Questi artisti erano Scipione, Mario Mafai, Fausto Pirandello, Renato Birolli, Antonietta Raphael, Renato Guttuso e pochi altri. «Iniziai a studiarli e mi innamorai subito di questi autori che mi davano emozione per contenuti, libertà compositiva e potenza del colore», racconta Iannaccone ricordando un'avventura iniziata alla fine degli anni Ottanta, quando era già un affermato avvocato oberato da cause internazionali. Allora collezionava libri d'arte che studiava alacremente nelle ore notturne. «Avevo ben chiaro che avrei cercato solo capolavori di quel periodo così affascinante: un'opera di Mafai avrebbe dovuto essere del '29, Birolli del '31-'32, Lilloni al massimo del '29-30 e così via».
E così fu. Alla Triennale sono esposte opere fondamentali del rinnovamento pittorico iniziato nella seconda metà degli anni Venti e della cosiddetta Scuola Romana, artisticamente influenzate dal respiro europeo ma istintive e personalissime nei contenuti. Alcuni sono autentici capolavori, come il sanguigno «Profeta in vista di Gerusalemme» di Scipione che rappresenta una sorta di testamento spirituale di un artista stremato dalla malattia; o come il «Tassì rosso» e «I poeti» di Renato Birolli. Con la vedova Birolli, che compare al centro dell'opera «Le signorine Rossi», Iannaccone ebbe un'amicizia sincera e un proficuo scambio intellettuale.
Capolavori, dunque, ma anche inediti intensi e struggenti come «L'intagliatore» di Ottone Rosai, il ritratto del padre laborioso che sarebbe morto sucida stroncato dai debiti. «È un quadro-scultura, qualcosa di più della memoria di un volto. Quando lo guardo penso che vorrei essere ricordato dai miei figli con la stessa dolcezza».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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