Che in quel palazzo affacciato su via Carabelli, alle spalle di piazzale Cuoco, vivesse un obiettivo a rischio le maestre dell'asilo nido se ne accorsero solo quando un giorno del 1992, in pina temperie di Mani Pulite, nella via scoppiò il finimondo: colpa o merito di un agente della scorta, che sostenne di avere visto un tipo col fucile a canne mozze nascosto dietro le siepi dell'asilo. A quel progetto di ucciderlo, Gerardo D'Ambrosio reagì senza enfasi: forse non ci credeva, o forse il fatalismo napoletano gli suggeriva il basso profilo. Non se ne seppe più nulla. E anni dopo, ai giardinetti di piazzale Cuoco, era ancora facile incontrare lui, zu Gerà, che accompagnava come un nonno qualsiasi il nipotino sugli scivoli.
Eppure quell'uomo alto, dall'accento di Vico Equense non stemperato dagli anni passati al nord, era il testimone e in parte cospicua il protagonista di un quarto di secolo cruciale della vita di Milano e del paese. Venticinque anni in cui il lavoro di magistrato aveva portato D'Ambrosio a scavare sui misteri d'Italia.
Ieri D'Ambrosio è morto. E resta il rimpianto di non essere passati a trovarlo nel crepuscolo della sua vita, quando sarebbe stato interessante andare a tirare un bilancio. Non solo di Mani Pulite, di cui D'Ambrosio fu l'artefice più esplicitamente politico, ma proprio per questo forse più sincero. Ma anche di quanto avvenuto prima, negli anni cupi dell'Italia nella morsa del terrore. Anni in cui magistrati dalla formazione di sinistra, e lui era tra quelli, si trovarono schierati dentro quella sorta di fronte di salvezza nazionale che contrastava l'avanzata della violenza politica. Si trova nella passione per lo Stato maturata in quegli anni la spiegazione del D'Ambrosio di poi.
Se c'è un capitolo della storia di questo paese ormai quasi chiarito è - chiacchiere e fantasie a parte - la strage di piazza Fontana. E il merito, insieme ad alcuni colleghi come i padovani Calogero e Stiz, va anche a lui. Che ebbe il coraggio di scavare in quella zona grigia delle connivenze e opportunismi istituzionali con gli stragisti veneti di Ordine Nuovo, prima e dopo il massacro alla Banca dell'Agricoltura, 12 dicembre 1969. Ma ebbe anche il coraggio, e forse ce ne voleva anche di più, di scagionare Luigi Calabresi, commissario di polizia, che una feroce campagna di stampa, appoggiata anche da settori della magistratura, indicava come l'assassino di Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, morto in questura quattro giorni dopo la strage.
D'Ambrosio disse e scrisse che non c'erano prove che Pinelli fosse stato ammazzato, e concluse per la tesi del malore, che portò il ferroviere, provato da giorni sotto il torchio degli interrogatori, a scavallare la ringhiera della stanza dell'Ufficio Politico. «Improvvisa alterazione del centro di equilibrio», scrisse l'allora giudice istruttore.
Ancora quarant'anni dopo, nel 2009, Adriano Sofri - condannato come mandante dell'omicidio di Calabresi - non aveva perdonato a D'Ambrosio quella sentenza, e lo accusava di avere tradito (anzi, «dilapidato») la sua stessa inchiesta sulla strage. Ma quello che resta di D'Ambrosio, accanto e più della fase convulsa di Mani Pulite, è l'inchiesta su Piazza Fontana. Senza D'Ambrosio non si sarebbe mai saputo che uno dei due ideatori della strage, Giovanni Ventura, era in contatti stretti con Guido Giannettini, l'agente Z dei servizi segreti. Adesso è roba da Wikipedia. Allora, ci voleva coraggio.
É «con grande tristezza» che «ho appreso la notizia della morte di Gerardo D'Ambrosio, un amico, un grande uomo e uno dei simboli della magistratura italiana». Con queste parole il sindaco Giuliano Pisapia ha rivolto il proprio pensiero all'ex magistrato, «un uomo cui la vita aveva concesso una seconda chance e che aveva saputo sfruttarla a beneficio della collettività». Per decenni, ha ricordato il sindaco ed ex avvocato, «è stato un punto di riferimento della magistratura operando sempre con professionalità e senso di giustizia. Ho avuto il privilegio di conoscerlo e di esserne amico, per questo so bene quanto mancherà alla sua famiglia e ai suoi amici». «Immenso rimpianto per le straordinarie qualità professionali e umane»: così i magistrati della Procura della Repubblica di Milano, in una nota firmata dal procuratore Edmondo Bruti Liberati, ricordano D'Ambrosio.
Il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina ricorda la sua candidatura in Lombardia prima con i Ds e poi nel Pd, «il suo rigore e lo stile». Per il prefetto Paolo Tronca «Il suo impegno civile sarà portato avanti da chi ha a cuore la legalità».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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