Tempo dieci giorni o poco più, giusto quello per il ministro Cartabia di firmare la nomina. E nella grande stanza al quarto piano del tribunale, con un crepuscolo ottocentesco alla parete, andrà a sedersi un magistrato che per trovare la stanza dovrà farsi accompagnare. Perchè quel dedalo di corridoi di marmo disegnati da un architetto fascista, Marcello Viola non li ha mai calcati. La sua storia di magistrato è tutta tra la Sicilia e Firenze, dove oggi è procuratore generale. Di Milano sa molto, essendo uomo attento e curioso. Ma è lontano anni luce dal «rito ambrosiano» della giustizia, da quel mix di intensità investigativa, senso di appartenenza e compattezza davanti al nemico che hanno costituito in questi decenni la vera forza della Procura di via Freguglia: ma che poi hanno portato alla sua implosione. É questa sua estraneità
ad avere, alla fine, giocato un ruolo decisivo nel convincere il Consiglio superiore della magistratura a spedirlo a Milano. Per avere memoria di un procuratore venuto da fuori, Michele Saponara - vera memoria storica della giustizia milanese - deve risalire a mezzo secolo addietro, quando al quarto piano sedeva il procuratore Giuseppe Micale. Dopo di allora, una norma non scritta ha portato a succedersi in una delle cariche giudiziarie più importanti d'Italia solo magistrati che la carriera precedente l'avevano fatta tutta a Milano. Magistrati diversi per carattere e idee politiche, ma che i loro sottoposti potevano considerare a buon titolo «uno di noi».
Questa continuità ha permesso la costruzione di un patrimonio di esperienze formidabile, che hanno fatto della Procura milanese una macchina da inchieste ammirata e temuta: ma portava in sè una drammatica assenza di ricambio. Con la benedizione del Csm si sono avvicendati per trent'anni, alla scrivania col crepuscolo alle spalle, magistrati con un imprinting comune. Non è stato, a conti fatti, un bene.
Viola a Milano non trova soltanto macerie. La storia di questi mesi terribili vissuti dalla Procura milanese, e evocati ieri nel plenum del Csm, ha raccontato anche segnali positivi. Primo tra tutti, la valanga di firme di solidarierà dei pm «qualunque» a Paolo Storari, il sostituto che dalla sua crociata solitaria contro i vertici della Procura per la gestione dei verbali sulla loggia Ungheria rischiava di uscire stritolato, e che invece quelle firme hanno salvato dalla cacciata immediata. Ma quelle firme erano anche la spia di un malessere profondo, la sensazione da parte di decine di magistrati di essere tenuti lontani dalle indagini importanti («siamo degli spalatori», confidava recentemente uno di loro) a tutto vantaggio di pochi, privilegiati colleghi. É a questo malessere, in primo luogo, che Viola dovrà dare risposta arrivando a Milano. Avrà a che fare con presenze ingombranti e con nodi irrisolti. Dovrà ritrovare le fila dell'entusiasmo, che nelle tristezze di questi mesi si è inevitabilmente perso e che ha portato chi poteva a lasciare Milano: quella che era una volta la procura più ambita d'Italia dai giovani magistrati è divenuta un posto da cui fuggire in cerca di aria migliore.
Dovrà riorganizzare l'ufficio, e per farlo dovrà prima di tutto conoscerlo nei suoi multiformi aspetti, nelle sue potenzialità che restano alte e nelle sue debolezze che rischiano di incancrenire. É facile prevedere che la sua estraneità - nessuna ruggine pregressa, nessun debito di riconoscenza - sarà la sua forza. Ma comunque non lo attende una passeggiata.
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