Anni Cinquanta, Milano esce dal dopoguerra e si lancia alla conquista del mondo con le sue fabbriche, i suoi creativi, i suoi panettoni. Il denaro circola, le strade si riempiono di gente che spende e si diverte. Dall'America arriva il rock 'n roll, una moda che inorridisce i benpensanti ma contagia i giovani. Uno di loro in particolare «spacca», il 18 maggio 1957 al palaghiaccio di via Piranesi con «Ciao ti dirò». Tal Celentano Adriano, uno sconosciuto accompagnato da altri tre sconosciuti: Jannacci Vincenzo, piano e chitarra, Tenco Luigi, sax e Gaberscik Giorgio, chitarre. Tutti immigrati, accolti da quella grande madre che la Milano del dopoguerra: «terroni» Celentano e Jannacci, triestino Gaberscik, genovese Tenco.
Il Jannacci e il Gaberscik continueranno ancora fino al 1960 come «I due corsari», poi oguno prenderà la propria strada. Uno abbrevierà il suo nome in Enzo, l'altro il cognome in Gaber. Il resto è la storia, storia d'Italia degli ultimi 50 anni. Se Celentano proseguirà poi con il rock «duro», Tenco preferirà un genere più «intimista», Gaber quello «surreale», Jannacci scoprirà una vena tutta sua, quella degli ultimi e degli emarginati. Poveri cristi costretti a saltare il pasto per cercare «L'ombrello di mio fratello». O angariati da un frastrellastro che ruba la ruota del suo «Tassì» e lo fa ribaltare provocando la morte di entrambi. È il 1961 e le due canzoni compaiono nel suo primi 45 giri da solista, proiettandolo all'attenzione di un pubblico anche se ancora ristretto.
È anche il periodo del suo ingresso a un'altra istituzione milanese: il Derby Club di via Monte Rosa, ora decaduto a centro sociale, dove si esibiscono Charles Aznavour, John Coltrane, Quincy Jones. Richiamando un pubblico assai eterogeneo Bettino Craxi e Gianni Rivera, Mina e il miliardario tedesco Charlie Krupp, Francis Turatello e Luciano Lutring. Si perché i tanti quattrini attirano i criminali come mosche sul miele. La città si incarognisce impazza la banda Cavallaro che riempie la città di cadaveri, mentre stanno crescendo i Vallanzasca e i Turatello. Ma lui quasi sembra non accorgersene: stringe amicizie fraterne con Dario Fo, Cochi e Renato, tiene a balia Diego Abatantuono e Massimo Boldi. Fa anche le sue prime apparizioni al cinema con il drammatico «La Vita Agra» e il musicarello «Quando dico che ti amo».
Dalla metà degli anni Sessanta Jannacci sforna delicate poesie dedicate all'«Armando» alle prese con un gemello che «per far ridere gli amici lo buttava giù dal ponte ma per non bagnarlo lo buttava dov'era asciutto». Poi «Veronica» con cui «non c'era il rischio del platonico» e il palo della banda dell'Ortica che non «vedeva un'autobotte però sentirci, ghe sentiva un acident». Infine il successo di «Vengo anch'io» bissato dal barbone innamorato di «El purtava i scarp del tennis».
Il genio di Jannacci è ormai riconosciuto e lui «terrone» viene chiamato da Monicelli, insieme all'amico Beppe Viola, per i testi in milanese di «Romanzo popolare» e la struggente «Vincenzina». Storia di una donna, immigrata che trova nel suo lavoro di operaia sindacalizzata, emancipazione e sicurezza.
Siamo ormai a cavallo tra gli anni '70 e '80, quelli «di piombo», la paura si impadronisce della città invasa dalle droghe pesanti, la sera scatta il coprifuoco. Si immalinconiscono anche i suoi testi e in «E allora... concerto» si rivolge al Padreterno chiedendogli perché «un ragazzo butti giù un overdose o c'ha un tumore alle ossa». Una vena di tristezza, per altro sempre presente nelle sue ballate, fugata solo da quella smorfia sul viso chiamata sorriso quando ricanta con gli amici di sempre Fo, Cochi, Renato, «Ho visto un Re» oppure «La vita l'è bela».
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