Il primo enigma è nel titolo della mostra che campeggia sulla copertina del libro-catalogo Electa stampato in color ocra gialla, uno dei preferiti dalla tavolozza del Pictor Optimus. La scritta «de Chirico» è familiare e al contempo straniante poichè, ad uno sguardo più attento, nasconde la seconda «i» che risulta in realtà essere una erre punteggiata sull'asticella. Luca Massimo Barbero, curatore della grande esposizione che si inaugura oggi a Palazzo Reale, ridacchia della burla tipografica sotto i baffetti alla Buscaglione e precisa: «Sono certissimo che il maestro avrebbe apprezzato l'inganno, ma quel titolo vuole anche essere rappresentativo di un artista che tutti credono di conoscere ma quasi nessuno ha mai guardato veramente». E forse non basterebbe un mese per guardare davvero la mostra che, con oltre cento capolavori provenienti dai più importanti musei del mondo, rappresenta senza dubbio la più grande retrospettiva dedicata a De Chirico, forse superiore all'altra antologica che proprio Palazzo Reale gli dedicò nel 1970. Tanto la mostra quanto il catalogo sono un documento prezioso e ragionato dell'opera di uno dei più grandi artisti del secolo breve, finalmente depurato dalle annose questioni sulle falsificazioni grazie al lavoro certosinico della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico; Fondazione che ha collaborato in modo puntuale ala realizzazione della mostra prodotta dal Comune di Milano. L'importanza dell'evento, che costituisce la punta di diamante della serie di esposizioni organizzate per il quarantennale della morte del maestro, sta nella qualità delle opere, alcune delle quali mai sbarcate finora in Italia, come la straordinaria Arianna proveniente dal Metropolitan di New York. Ma non solo. Al curatore va reso il merito di aver allestito una mostra davvero esaustiva sul fondatore della Metafisica, con un taglio critico che ha previsto accostamenti inediti, non necessariamente cronologici ma emozionali o «fantasmici», direbbe Barbero; in un percorso allestitivo che, architettonicamente, richiama gli inganni e le sovrapposizioni spazio-temporali dei dipinti, tra finestre improvvise, labirinti, falsipiani prospettici e angolature taglienti. Ecco allora che muse inquietanti, argonauti, gladiatori, manichini, filosofi e figliol prodighi attirano lo spettatore, ora nascondendo ora rivelando gli angoli più remoti della poetica di un artista che, pur attraverso fasi formali diverse, «fu solo e sempre metafisico», come ha voluto sottolineare paolo Picozza, presidente della Fondazione Giorgio e Isa De Chirico.
E in questa nuova narrazione, acquista nuova luce e dignità anche il periodo barocco del maestro, quello più bistrattato dalla critica, ma che invece qui si integra armonicamente nel percorso che attraversa la sua genesi familiare, l'illuminazione metafisica e le sue piazze visionarie.
La grande mostra di Palazzo Reale sembra porre la definitiva consacrazione internazionale di un genio che ispirò il surrealismo europeo e a cui Picasso guardò sempre con le antenne ben dritte. «Ma mentre i surrealisti rappresentavano il mondo onirico e Picasso la realtà che smontava e riassemblava, de Chirico fu l'unico vero visionario della storia dell'arte», sottolinea Barbero che è riuscito a riunire un corpus di opere provenienti da importanti musei internazionali tra i quali la Tate Modern di Londra, il Metropolitan Museum di New York, il Centre Pompidou e il Musée d'Art Moderne de la Ville de Paris, la Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma, la Peggy Guggenheim Collection di Venezia, The Menil Collection di Huston e il MAC USP di San Paolo in Brasile. Prezioso anche il contributo delle istituzioni milanesi, città in cui de Chirico visse e lavorò a più riprese: Museo del Novecento, Casa Museo Boschi Di Stefano, Pinacoteca di Brera e Villa Necchi Campiglio.
Il percorso suddiviso in otto sale rappresenta un teatro sul cui palcoscenico sono rappresentati armonicamente tutti i grandi temi di un pittore rivoluzionario che riuscì a far coesistere l'età classica e il Rinascimento, le avanguardie e la contemporaneità. Un pittore che, chiosa Barbero, «fu dirompente quanto le avanguardie del '900, ma lo fece restando fedele a una linea figurativa che stentò sempre a essere riconosciuta come rivoluzionaria e davvero sovversiva».
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