Cronaca locale

Una giornata da senzatetto dentro l'Oasi del clochard

Tra speranze perdute e rifugi «d'artista», ecco il nuovo centro da 300 posti affidato dal Comune ai City Angels

Una giornata da senzatetto dentro l'Oasi del clochard

La casetta d'«artista» fai-da-te si monta in quatto e quatt'otto. Tetto, porta d'ingresso, pareti esterne «finemente decorate» con balconi e finestre in stile «Roccocò dei poveri». Molto «dei poveri», considerato che l'immobile (molto mobile, per la verità), è interamente in cartone e all'interno ha un arredamento assai spartano: sgabello (anch'esso in cartone), coperta e cuscino. Un'«abitazione» che farebbe la felicità di un clochard. Ma che - al momento - è solo una «provocazione». Obiettivo: sensibilizzare al problema istituzioni e opinione pubblica. Ma qual è il «problema»? I barboni metropolitani. Un popolo in aumento che, per scelta (pochi), o per necessità (tanti), si sono ritrovati a vivere sulla strada. Senza un tetto, senza sapere dove andare a mangiare, dormire, lavarsi. Soli, in mezzo alla folla di Milano. Almeno fino a ieri. Ma le cose stanno cambiando.

La risposta di «rito ambrosiano» che - già dalla sua nascita (poco meno di un mese) - sorprende per efficientismo, viene dall'«Oasi del clochard».

Siamo alla periferia di Milano, zona Mercati generali (via Lombroso): qui, al civico 99, dove c'era un campo rom di cui la città si vergognava, sorge oggi un villaggio per clochard (cittadini italiani e stranieri con tutti i documenti in regola) di cui Milano può essere orgogliosa.

Un progetto nato con l'amministrazione Pisapia e concretizzato dal sindaco Sala su input dell'associazione City Angels che dopo aver vinto un regolare bando di concorso ora coordina l'intera «Oasi».

Una cittadella che vuole ridare speranza a chi la speranza l'ha - speriamo solo momentaneamente - perduta: moduli abitativi con sei letti ciascuno, servizi igienici, mensa, ambulatorio, biblioteca, palestra. Attualmente gli ospiti sono 70 ma la struttura può accogliere fino a 300 persone. Per un giorno anche noi abbiamo vissuto un po' da barboni, testando la bontà dell'accoglienza dei City Angels che ci ha fatto «provare» anche la famosa casetta di cartone per clochard - diciamo così - un po' radical chic.

Ma questa forma più «evoluta» di barbone politically correct, siamo sicuri che piaccia a chi ha scelto un'esistenza da anarchico on the road? Basta però farsi un giro tra gli inquilini dell'Oasi per capire che questa figura scapigliata di anarchico vagabondo rappresenta ormai solo uno scampolo di letteratura bohémien.

Le storie degli ospiti dell'Oasi non hanno nulla di romantico: «Sono qui da un mese, dopo che mia moglie è morta - racconta un residente dell'Osasi -. I mie i figli mi hanno cacciato di casa: Hai otto giorni per portar via le tue cose, oppure te le buttiamo in strada. Prima dell'apertura dell'Oasi dormivo alla Stazione Centrale, ma lì era un inferno, qui in confronto è il paradiso».

Tutti gli ospiti che si trovano adesso sotto l'ala protettiva dei City Angels hanno alle spalle un «vissuto drammatico», come dicono i sociologi che parlano bene.

È con un certo disagio che quindi abbiamo provato a metterci nei panni di un clochard, stendendoci sotto le coperte in una casetta di cartone, ma pure su una delle brande all'interno dei container dormitorio.

Nell'infermeria del campo scambiamo invece due chiacchiere con Sergio Castelli, un passato di manager nel pubblico e nel privato, e ora vice presidente dei City Angels: «Quando sono andato in pensione, Mario Furlan (fondatore e presidente degli angeli con giubbotto rosso e il basco azzurro) mi ha chiesto di dargli una mano. Ho accettato con entusiasmo e adesso, eccomi qui, impegnato a tempo pieno in un'impresa che dal punto di vista strettamente imprenditoriale può rivelarsi soltanto in perdita, ma che in compenso regala gratificazioni umane impareggiabili».

Castelli mantiene l'entusiasmo del ragazzino ed è anche disposto a scherzare con chi parla di clochard style, cioè di una sorta di barbone dal profilo metrosexual e very glamour. E che dire di quel nome - Oasi del clochard - che ricorda il fruttivendolo con l'insegna «La boutique della verdura» o il calzolaio con l'etichetta «La clinica della scarpa»?

«Invece di oasi potevamo chiamarlo più semplicemente villaggio o rifugio - ammette Castelli - ma ci sembrava troppo banale. Il vero messaggio è che vorremmo che qui la gente si sentisse in famiglia».

Gli ospiti dell'Oasi del clochard sono simili ma non uguali ai «veri» disperati che ogni giorno scansiamo tra le pieghe della «Milano da bere» (ma che nel caso dei barboni beve solo vino cartonato). Il loro numero preciso sfugge alle statistiche. Ma non alla realtà. E a ricordartelo è soprattutto quella strana voce interna che ti «impone» di non guardarli, anche se tu li vedi benissimo. Sulle panchine, sotto i porticati, agli angoli delle strade. Nascosti. Seminascosti. Per nulla nascosti. Fino a trovarli in mezzo ai marciapiedi. Costringendoti a zigzagare un po' tra le auto è un po' tra i tuoi sensi di colpa.

Girare la testa dall'altra parte: ecco la «soluzione». Che non risolve nulla. Neppure il nostro conflitto interno: fermarmi fisicamente ad aiutare (no, sarebbe troppo) o almeno fermarmi metaforicamente a capire? Parola d'ordine del cittadino standard: tirare dritto. Accelerare il passo. Per poi magari infierire, non appena noi - persone «normali» - riusciamo ad allontanarci dal «problema», con domande sceme, tipo: «Ma hai sentito come puzza?», «Ma come si fa a ridursi così?», «Ma perché non va a lavorare?», «Ma non ce l'ha una famiglia?».

Mario Furlan - il cui nome, a Milano, è come il marchio «Galbani» (che «vuol dire fiducia») - queste domande sceme ha smesso di farsele da una vita. Oltre vent'anni fa ha fondato i City Angels e da allora ha sostituito il bla bla con i fatti. Basta chiacchiere, Furlan è uno abituato a rimboccarsi le maniche e a sporcarsi le mani.

«Per il bene della città e sempre dalla parte dei più deboli», si potrebbe dire, se solo lo slogan non risultasse «fresco» come una manciata di palline di naftalina nelle tasche di un vecchio cappotto.

Commenti