Era, anche dietro le sbarre di un'aula di giustizia, brillante, spiritoso, a suo modo simpatico. Adesso è un vecchio che si commuove pensando al figlio di quattro anni e mezzo, «non so se farò in tempo a dargli un futuro». In mezzo, tredici anni in cui Emilio Di Giovine ha fatto in tempo a pentirsi, a uscire di cella, a rifarsi una vita. E ora a raccontare alle telecamere di Cose Nostre la storia di come arrivò a regnare sulla città: «Io mi sono presa Milano con l'eroina».
Ieri sera la lunga intervista a Di Giovine è andata in onda su Rai 3. Per la prima volta, viene raccontata in diretta non la cronologia sempre uguale dei delitti degli anni Ottanta, ma la mentalità cruda che ci stava dietro. E fa impressione perché a raccontarle non è un killer semianalfabeta ma un viveur, uno che durante i processi raccontava a un cronista perché la mafia gli faceva schifo: «I mafiosi fanno una vita pazzesca, piena di regole: e non fare questo, e non fare quello. Io sono una testa matta, un avventuriero».
La sua base era piazza Prealpi. Sua mamma era Maria Serraino, l'unica vera donna-boss che Milano abbia conosciuta. «Mia madre non era tenera, era il capo di tutto. Era semianalfabeta ma faceva i conti meglio di me, era di una furbizia assoluta, nessuno poteva farla su. Decideva in fretta: nasceva un problema e tac! Lei lo risolveva. Era tremenda, aveva una specie di istinto animale. E parlo di anni in cui i sacchetti con i soldi dell'eroina arrivavano in casa in continuazione, avevamo i frigoriferi pieni, non sapevamo più dove metterli».
Alle caterve di morti che il mercato dell'eroina seminava in quegli anni a Milano, il vecchio boss non dedica neanche un simulacro di rispetto. Almeno è sincero. Ed è sincero quando dedica parole cariche di risentimento a sua sorella Rita, che fu la prima della famiglia a pentirsi: «L'avevano presa con mille pasticche di ecstasy che aveva rubato a mio fratello. Lei si è pentita e ha fatto dare l'ergastolo a mia madre e ha fatto arrestare tre generazioni, per una minchiata di mille pastiglie che in tre giorni era fuori. Lei umanamente non è giustificabile, ha fatto mettere fine pena mai a sua madre. Io mi farei la galera a costo di non uscire più».
Maria, la vecchia boss, è morta qualche anno fa: e sui muri vicino piazza Prealpi ci sono ancora i murales che la omaggiano; d'altronde al funerale, come racconta la milanesissima salumiera della piazza, «ci siamo andati tutti». «Perché mia mamma - racconta Emilio - teneva il quartiere a posto, non permetteva che si facessero le estorsioni».
Non solo. «Io dalla vita - dice Di Giovine - ho avuto tutto quello che volevo da bambino, quando in Calabria crescevo imparando a sparare, e facendo la gara con i miei coetanei a chi mangiava i peperoncini crudi senza piangere. Volevo soldi, macchine, donne. E li ho avuti».
Le donne, soprattutto. Belle da morire. E finite nei guai per colpa sua. «Tutte le donne che sono state insieme a me hanno avuto un destino amaro: il massimo del bene e il massimo del male». Il peggio di tutti lo ebbe «la Lele» che ad appena 17 anni era incinta di lui: «Eravamo al ristorante insieme a Vittorio Bosisio e alla sua donna: entrarono per uccidere Vittorio. Io non ero armato, non potevo rispondere. Mi buttai sotto il tavolo insieme alla Lele. Quando gli spari cessarono, avevo il suo piede tra le mani. Lei era morta».
Al suo attivo, Di Giovine ha una delle evasioni più spettacolari che si ricordino, quella dai sotterranei del Fatebenefratelli dove si era fatto portare per una visita e dove fecero irruzione i suoi ragazzi vestiti da medici e infermieri, con i candelotti e gli storditori. C'era arrivato corrompendo un secondino: «Corruzione... Direi scambio di favori. Ho sempre seguito questa linea perché i soldi me lo permettevano. Avevo un potere fuori dal normale. Ero al massimo, avevo fuori ad aspettarmi uomini, soldi, una donna bellissima, cosa ci facevo in carcere? Al mio avvocato dicevo: hai due miliardi di budget per tirarmi fuori di galera, come li spendi non lo voglio neanche sapere, l'importante è che esco».
Intanto in Calabria scoppiava la guerra tra i clan, un massacro interminabile tra le famiglie. E da Milano Emilio fa avere ai suoi parenti le armi che chiuderanno la partita, trenta bazooka arrivati direttamente dalla Svizzera, in grado di bucare come latta le auto blindate. Il favore gli viene restituito. «Mio zio mi disse cosa ti serve su a Milano, di quanti uomini hai bisogno?. Mi mandarono su i ragazzi, potenziali sicari. Con quelli conquistai Milano. Non ho mai ucciso nessuno, ma ho fatto uccidere. Quando ti dico devi fare così e non lo fai, alla terza volta divento cattivo e devi morire. Ero incontrollabile, non ascoltavo nessuno», racconta Di Giovine.
«Agiva prima ancora di avere pensato, ed era questo a renderlo pericoloso», ricorda Maurizio Romanelli, il pm che lo fece arrestare. «Adesso ho il diploma di cuoco e pago regolarmente le bollette», dice lui: e manca solo che aggiunga «e vado a letto presto».
Per pentirsi, spiega, «ho dovuto uccidere il me stesso che ero prima, altrimenti sarei stato troppo orgoglioso per farlo». La puntata forse andrebbe fatta vedere nelle scuole, soprattutto nel finale. «Ho buttato via la mia vita».
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