Tutto si potrà dire dei «macaini», fuorché non sappiano individuare gli obiettivi per trarre la massima visibilità dalle loro azioni. Prima la Torre Galfa, quinto edificio di Milano con i suoi 110 metri, ora addirittura un palazzo settecentesco a Brera. A questo punto, venissero nuovamente sgombrati, chissà a chi saranno capaci di rifilare la loro «pataca», nel senso della moneta rimasta in corso a Macao anche dopo il suo ritorno alla Cina nel 1999. Nel frattempo si godono una splendida dimora con ampio cortile, silenzioso giardino e stanze abbellite da affreschi.
Un’operazione portata a termine in mezz’ora, pacificamente e per di più pagando persino il biglietto della metropolitana, presa da almeno trecento persone per spostarsi da via Galvani al centro. Sono infatti da poco passate le 14 e sotto il grattacielo di Ligresti la situazione è tranquillissima, ci sono le solite pattuglie della polizia locale per chiudere il tratto di strada al traffico e un paio di agenti della Digos che osservano da lontano. Del resto era ormai ufficiale da 24 ore la decisione presa dal gruppo di «lavoratori dello spettacolo e dell’arte» di levare le tende, in senso letterale del termine. Sotto la Torre infatti era nato una sorte di «campeggio» dopo che la polizia il 15 maggio aveva posto fine all’occupazione iniziata dieci giorni prima.
I ragazzi finiscono di raccogliere le loro masserizie poi uno dei portavoce prende il megafono e annuncia la transumanza. «Ci dividiamo in due gruppi, il primo prende la metropolitana in Centrale, l’altro a Gioia, vi diremo noi quando scendere». I così 150 da un parte, 150 dall’altra, i «macaini» si incamminano, intruppati da solerti leader che ripetono continuamente «State sui marciapiedi, non intralciate il traffico». Pochi minuti e tutti si ritrovano in metrò, timbrano biglietto e si infilano nelle carrozze «Prima fate scendere i passeggeri» ricordano i solerti «tutor». A Lanza, la truppa riemerge all’aperto, quattro passi ed eccoci di fronte al 12 di via Brera, una spinta la portone, che qualcuno aveva preventivamente aperto durante la notte, e davanti agli invasori si apre la meraviglia.
Palazzo Citterio è una piccola chicca in centro, al pian terreno un ampio cortile, abbellito da colonne, più avanti il giardino, confinante con l’Orto Botanico, sopra due piani «nobili» affrescati. Lo stabile, a onor del vero, ha perso parte del suo «allure», perché da anni al centro di un progetto di recupero che lo ha trasformato in cantiere. Acquistato nel 1972 dallo Stato, doveva accogliere le donazioni annunciate di collezionisti del calibro di Jucker, Vitali, Mattioli e Jesi. Lavori inizianti e interrotti più volte. In questi trent’anni è quasi sempre stato chiuso, salvo due aperture per le mostre su Alberto Burri e su «Gli ori di Taranto» negli anni ’80 e per l’esposizione di Paul McCarthy, artista americano da non confondere con l’ex Beatles, nel maggio 2010.
Una volta insediati, i «macaini» hanno preso possesso, anzi «liberato» come dicono loro, il piano terra, il primo piano e il seminterrato con l’auditorium e hanno iniziato a «mettere in sicurezza» le restanti parti dell’edificio. Il tutto in vista di una lunga permanenza. «Palazzo Citterio era l’obiettivo primario, la Galfa fu solo un ripiego» ha spiegato un occupante che poi si è premurato di far sapere come l’ex Ansaldo non interessi proprio.
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