I diari e i disegni del «genio» che sfidò Milano

A Palazzo Reale 200 opere del maestro futurista diviso tra il ritmo della città e i paesaggi lombardi

Francesca AmèLa mostra su Boccioni ha un ritmo massacrante. Perché massacrante, bulimico, insofferente e inquieto era questo ragazzo del Novecento. Umberto Boccioni è morto nel 1916, a soli 34 anni, e ha fatto in tempo a produrre tantissimo, affamato com'era di vita e di arte: Palazzo Reale celebra il centenario della morte con una mostra che tutto è tranne che celebrativa. È piuttosto una mostra di studio: richiede pazienza e attenzione. «Umberto Boccioni (1882-1916). Genio e Memoria» (dal 23 marzo al 10 luglio, catalogo Electa, il biglietto alla mostra comprende anche l'ingresso al Museo del Novecento) presenta oltre duecento opere dell'artista che, nato a Reggio Calabria, vissuto a Padova, Catania, Roma, Parigi, scelse Milano come città d'adozione. Per costruire questa ampia rassegna i curatori Francesca Rossi del Castello Sforzesco di Milano e Agostino Contò della Biblioteca Civica di Verona, sono partiti dai documenti. Tre in particolare: i tre diari personali di Boccioni giunti dal Getty Research Institute di Los Angeles il corpus integrale dei disegni conservati al Castello Sforzesco e tutti i documenti (libri, fotografie e illustrazioni) recentemente catalogati dalla biblioteca veronese. I diari, con la scrittura fitta e i disegni, sono la prima tappa emotiva di una mostra che si apre su un'ampia sezione dedicata alla formazione di Boccioni: l' «Autoritratto» del Castello Sforzesco accoglie il visitatore che osserva, uno dopo l'altro, i lavori da cui l'artista ha tratto ispirazione. Ci sono le opere di Giacomo Balla, il maestro, ma anche di Segantini e Previati la cui «Maternità» molto colpì Boccioni. Nella seconda parte della mostra sono i sessanta disegni del Castello Sforzesco a scandire la visita, suddivisa per sezioni tematiche. Esposti per prima volta in forma integrale, insieme alle opere provenienti dai musei milanesi ci danno il peso di quanto sia stato fecondo il rapporto tra l'artista e la nostra città. Almeno tre i temi da tenere d'occhio durante la visita: il concetto del dinamismo in rapporto con la figura umana nello spazio, la lunga esperienza del ritratto, una sorta di mostra nella mostra (dal «Ritratto di bimbo» alla serie dedicata alla madre, tra cui il celeberrimo «Materia») e infine l'attenzione al paesaggio, da quello della pianura lombarda degli inizi alla frenetica vita metropolitana di cui «Elasticità» del 1912 è il capolavoro. Sono gli anni di Parigi quelli più intensi: Boccioni, dopo aver scritto con Russolo e Carrà il «Manifesto dei pittori futuristi» viaggia a lungo e a Roma inventa le celebri serate futuriste. In «Umberto Boccioni. L'artista che sfidò il futuro» (Johan&Levi editore, ora libreria) Gino Agnesi ricostruisce bene quegli anni febbrili, in cui l'artista assorbe stimoli da ogni parte, da Apollinaire a Papini. Boccioni ragiona sulla scomposizione delle forme nello spazio, riflette sulla lezione del Divisionismo, si lascia sedurre dal Cubismo, torna complice la lezione di Cézanne alla figurazione, come ci fa ben intendere anche la sezione finale della mostra.

Una rovinosa caduta da cavallo interrompe bruscamente la corsa artistica e umana di Boccioni ed è anche per questo che paiono importanti i documenti recentemente catalogati dalla Biblioteca Civica di Verona: l'oggetto più prezioso è una raccolta di ritagli di riproduzioni artistiche (dalle stampe di Dürer ai quadri di Miller), una sorta di Atlante o di diario-visivo che Boccioni compilava con forsennato rigore, annotando ciò che lo incuriosiva o interessava. Consapevole, chissà, che la vita non gli avrebbe concesso troppo tempo.

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